Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
Diaspora ebraica
Shoah
il libro ritrovato
Nicole Krauss, “La storia dell’amore”
Ed. Guanda, pagg. 299, Euro 15,00
“La storia dell’amore” è il
secondo romanzo di Nicole Krauss, qualche mese fa è stato pubblicato “Molto
forte, incredibilmente vicino”, il secondo libro di Jonathan Safran Foer, suo
marito. Impossibile non soffermarsi un attimo ad osservare le doti
straordinarie di questi due giovani scrittori, il talento che li accomuna, in
un’assonanza di sentimenti ed una somiglianza di storie famigliari che rende in
qualche modo affini le loro opere. La seconda guerra mondiale, con la tragedia
della Shoah, è ormai nella memoria dei vecchi, così anche il ricordo di
un’Europa che non c’è più, di villaggi ebraici inghiottiti dalla storia, come
Slonim, il paese da cui viene Leo Gursky, personaggio principale de “La storia
dell’amore”, che “qualche volta era in Polonia e qualche volta in Russia”. Si è
reso invisibile per la maggior parte della sua vita, Leo Gursky, prima quando
si nascondeva dai nazisti, poi, arrivato in America, quando guardava da lontano
il figlio Isaac, che portava il cognome dell’uomo che aveva sposato Alma, la
ragazza che Leo amava da quando aveva dieci anni. Anche la sua storia d’amore è
invisibile in quanto sua, perché è stata pubblicata a nome dell’amico Zvi
Litvinoff a cui lui aveva affidato il manoscritto, e pure il libro che scrive
adesso, da anziano, “Parole per tutto”, non sarà riconosciuto come suo, ma come
ultima opera del figlio Isaac, divenuto scrittore famoso, a cui ha spedito il
testo poco prima che questi morisse all’improvviso.
Il tema della ricerca è al
centro del romanzo di Nicole Krauss- Leo Gursky cerca il figlio e il figlio
Isaac cerca il vero padre di cui è venuto a sapere tardi nella vita, e lo
ricerca in una maniera insolita che riallaccia questo filone della trama
all’altro, della ragazzina Alma Singer, anche lei in cerca del padre, o della
memoria del padre morto quando aveva sei anni. Ma Alma cerca anche la donna da
cui ha preso il nome, Alma Mereminski, l’Alma a cui Leo Gursky ha dedicato “La
storia dell’amore”, il romanzo dentro il romanzo di cui leggiamo dei capitoli,
a mano a mano che vengono tradotti da Charlotte, la madre della giovane Alma.
E’ anche una ricerca dell’amore, questo libro sulla storia dell’amore- amore
che ispira tutta una vita, di Leo per Alma, di Charlotte per il marito morto di
tumore, di figli per i genitori, amore tra adolescenti, tra amici, amore
ultraterreno. E per dare voce ai suoi personaggi, per intrecciare le varie
trame, Nicole Krauss impiega diversi registri- la narrazione in prima persona
del vecchio Leo che parla con l’amico Bruno, una sorta di doppio di cui
scopriremo alla fine l’identità, il diario di Alma Singer in cui si inseriscono
stralci dei suoi appunti sui metodi di sopravvivenza (tutti i personaggi del
libro lottano per sopravvivere al dolore delle perdite, come tutti sono alla
ricerca delle parole per dirlo), quello del fratellino Bird che pensa di poter
essere il Messia e infine le pagine in terza persona che narrano di Zvi
Litvinoff e di come- per amore di una donna- abbia pubblicato “La storia
dell’amore” di Leo, traducendolo in spagnolo e cambiando tutti i nomi, tranne
quello di Alma, che pure lui ha amato. Stilos ha intervistato la giovane
scrittrice.
C’è un numero sempre maggiore di romanzi scritti in registri diversi,
con voci narranti diverse che seguono filoni e storie che si combinano poi insieme,
alla fine. E’ una conseguenza della complessità dei nostri tempi, o è una
tendenza generale, un po’ come il flusso di coscienza all’inizio del secolo
passato?
Penso che in parte sia una conseguenza del fatto che viviamo in un mondo
bombardato da notizie e immagini che ci vengono da una grande varietà di mezzi
di comunicazione diversi: la nostra epoca è meno lineare dell’800 o di gran
parte del ‘900, allora si viveva una vita più tranquilla senza continue
interruzioni da parte della radio o della televisione. In un certo senso la
nostra esperienza del mondo si evolve e penso che questo si rifletta nelle
arti: diverse storie, diversi stili, più voci in un romanzo sono l’equivalente
di quella che comunemente è una produzione multimediale. Io ho scritto “La
storia dell’amore” in questa maniera perché non mi limitava, non dovevo
scegliere uno stile, una voce, un solo personaggio, volevo provare tutto. Non
mi bastava limitarmi ad una sola scelta. Mi piaceva questa pluralità e poi
riunire tutte le fila.
Quale delle storie che racconta nel suo romanzo era quella che voleva
dire per prima? quella di Leo Gursky?
Le prime parti che ho
scritto del libro non sono state le storie, ma quelli che appaiono come
estratti del romanzo nel romanzo, l’Era del Silenzio e l’Era del Vetro: è stata
un’esperienza di pura gioia, scrivere quelle parti, qualcosa di magico e di
stravagante. Non sapevo che sarebbero divenute un romanzo. Era stato un piacere
scriverle e le ho messe da parte. Quando poi ho pensato al romanzo, ho
“sentito” per prima la voce di Leo, proprio con le parole che si trovano nella
prima pagina. Ecco, la sua voce mi è venuta così, e non è cambiata. Ad un certo
punto ho aggiunto quel suo modo di dire ripetuto, “comunque”: mi pareva
perfetto per dire tutto quello che non poteva dire, per metterci tutti i
silenzi della sua vita. Subito dopo ho sentito il bisogno di un contrappunto
alla sua voce. E all’altra estremità dello spettro della vita ho trovato la
voce giovane di Alma Singer. Prima di tutto c’è stata l’armonia delle due voci,
senza una trama, senza sapere come i due personaggi erano connessi.
Slonim |
Leo Gursky è in cerca del figlio, come un altro ebreo famoso, il
Leopold Bloom di James Joyce.
Quando ho scritto il
romanzo, non pensavo a Joyce, anche se la lettura dell’ “Ulisse” mi ha molto
colpito quando ero all’università, però è vero, c’è qualcosa di Leopold Bloom
in Leo Gursky. In realtà pensavo ad un altro scrittore irlandese, Samuel
Beckett, e in particolare al suo romanzo “Molloy”. E’ un romanzo così
esistenziale, così spoglio, così assurdo, buffo, un monologo senza fine. Anche
se Leo Gursky è molto diverso da Molloy: Leo è pieno di speranza, crede in una
redenzione, a differenza dei personaggi di Beckett.
E, come Stephen Dedalus, anche ne “La storia dell’amore” ci sono
parecchi figli in cerca del padre: in un’epoca in cui sembra che la famiglia
stia andando in pezzi, è questo un modo per riaffermare l’importanza dei legami
famigliari?
Per mia esperienza la
famiglia è qualcosa da cui non si sfugge, e non è solo perché mia madre mi
telefona ogni giorno. E’ qualcosa di più, non si tratta solo della mia vita e
di quella dei miei genitori, ma anche della vita dei miei nonni che continua a
svilupparsi intorno a me, attraverso me. Così il mio romanzo non è sull’Olocausto,
non è il seguito di un evento drammatico, ma è sulle reazioni laterali al senso
di perdita, ad anni di distanza. Per me l’esperienza di far parte di una
famiglia è continuare a sentire le perdite dei genitori e dei nonni. E mi
interessano i rapporti tra i membri di una famiglia perché non si possono
evitare, avere una famiglia non è una scelta. Mi appassiona la lotta per far parte
di una famiglia e, nello stesso tempo, per essere un individuo staccato dalla
famiglia.
Il romanzo è anche una celebrazione dell’amore- di Leo per Alma, di
Charlotte per il marito morto, di Zvi per Rosa, della giovane Alma che scopre
l’amore. E’ l’amore, che sta alla base della sopravvivenza, il tema più
importante del suo libro?
Come dico nel libro,
l’amore è quello che fa sperare di essere capito in maniera profonda. I miei
personaggi desiderano l’amore, non la tenerezza, né l’amore fisico e neppure la
passione. Amore è la sensazione che qualcuno sia testimone della tua vita, in
modo che senti che esisti, che qualcuno ti capisce in una maniera in cui gli
altri non possono capirti. I personaggi del romanzo sono persi nella
solitudine, ma tutti- ad eccezione di Charlotte che sceglie di non vivere e si
abbandona al dolore- scelgono di lottare per trovare una via d’uscita dalla
solitudine in una comunione con gli altri. L’amore è come la stenografia, un
modo veloce per capirsi veramente.
Se l’amore, e il libro dentro il libro “La storia dell’amore”, sono una
delle chiavi di lettura del romanzo, il titolo del secondo libro di Leo offre
un’altra chiave di lettura, “Parole per tutto”: è la Parola all’inizio di tutto?
E’ la Parola
un mezzo di sopravvivenza?
Per me lo è stato. Il mio libro è
dedicato ai miei nonni, che mi hanno insegnato il contrario di scomparire. Per
i miei nonni il contrario di scomparire è stata la sopravvivenza, sono
sopravvissuti alla guerra, hanno scelto di continuare ad avanzare nella
corrente della vita. Per me l’opposto di scomparire è stato scrivere: la mia è
stata una vita tranquilla, ma un tratto umano fondamentale è la preoccupazione
che la propria esistenza non conti e voler quindi lasciare un segno. E per me questo segno è stato mettere una
parola sulla pagina, e poi un’altra e un’altra ancora: quando scrivi insisti su
te stesso, insisti sul non scomparire. Il titolo “Parole per tutto” è un titolo
che si può dare solo ad un libro che non esiste, perché non ci sono parole per
tutto, la lingua è insufficiente e la letteratura esiste per quello, è una
lotta per trovare le parole. E una metafora è portare due idee insieme per
creare una terza idea per cui non ci sono le parole. Penso che non esisterebbe
il lavoro dello scrittore se la lingua fosse sufficiente, non ci sarebbero
fraintendimenti, non ci sarebbe il desiderio di perdersi nei libri dove tutto
ha un significato e si ha l’illusione che tutto possa trovare un’espressione,
dove si trovano anche parole per il silenzio.
Bruno Schultz appare nel romanzo non solo come uno scrittore di cui si
legge il libro, ma anche come una sorta di genio benigno, come l’amico
immaginario di Leo, come il doppio di Leo: perché Schultz?
Bruno Schultz |
Bruno Schultz vuole
essere un omaggio a questo scrittore, in un certo senso mi è venuta da lui
l’ispirazione per questo libro. Amavo l’opera di Schultz, conoscevo la sua vita
e la maniera straziante della sua morte- ucciso nel ghetto da un nazista
durante una lite con un altro nazista che proteggeva Schultz. Di Schultz si sa
che stava scrivendo il suo capolavoro, il “Messia”, che è andato perso. Si dice
che sia negli archivi del KGB; a me è rimasto il pensiero di che cosa sarebbe
potuto essere questo libro e il dispiacere che sia stato perso per sempre. Nel
mio romanzo c’è un libro che è andato smarrito ma poi è stato ritrovato e ha
potuto completare il suo viaggio e influenzare la vita delle persone. Schultz è
stato la mia guida spirituale.
Un altro artista è citato dallo zio di Alma: Giacometti. Che cosa
rappresenta Giacometti?
Giacometti è il mio
scultore preferito. Ho sempre amato le sue figure con cui cercava di
comunicarci il senso non tanto di quello che vediamo ma dell’impressione che ne
ricaviamo. Giacometti non era mai soddisfatto del suo lavoro e mi ha colpito
quello che diceva- che si deve sacrificare il tutto per una parte, che per
avere una foglia devi sacrificare l’albero. E’ il sacrificio che compie
l’artista per ritrarre bene una cosa, per cercare di descrivere bene qualcosa e
non mettere tutto nel libro. Nelle figure scarne di Giacometti senti il morir
di fame nella ricerca di questa impressione.
Il primo libro di Leo è stato plagiato, il secondo verrà pubblicato con
il nome del figlio: per un’opera d’arte è più importante essere conosciuta non
importa sotto quale nome, piuttosto che non essere conosciuta affatto, oppure
dovrebbe diventare famosa solo con il nome dell’artista che l’ha creata?
E’ più importante che un’opera trovi la
sua strada nel mondo. Sono attratta dall’idea di scrivere e fare arte non per
essere riconosciuta. Se si cerca un riconoscimento, si fa della cattiva arte,
si dà alla gente quello che vuole. Mi sembra che toccare in qualche modo la
vita delle persone con quello che si fa, sia più importante del riconoscimento.
E’ questa l’umiltà a cui aspiro. Sentivo che per me non era importante il
riconoscimento del pubblico, era meglio un solo lettore che apprezzasse, come
Alma Singer.
La vecchia Europa scolora in lontananza, Slonim è diventata solo un
nome e New York è la realtà: è questo un addio all’Europa da parte della
comunità ebraica americana?
Mi piace questa domanda: il libro non è
tanto un addio quanto un tentativo di immaginare un mondo che non ho mai visto,
una soluzione per la mia preoccupazione del sapere da dove vengo, che poi è
però un luogo che è svanito. E’ anche un modo per celebrare da dove vengo,
nonostante le difficoltà che ci sono state nella vita dei miei nonni, una
maniera per riinventare il passato, per far sì che il passato non ti faccia
ritirare dalla vita, non sia soltanto un guardarsi indietro, perché quello che
è successo non ti trattenga dal diventare come vuoi essere.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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