Voci da mondi diversi. Area germanica
FRESCO DI LETTURA
Jenny Erpenbeck, “Voci del verbo andare”
Ed. Sellerio, trad. Ada Vigliani,
pagg. 347, Euro 16,00
Gehen, ging, gegangen, voci del verbo andare, infinito,
passato, participio passato. Quando si studiano i verbi, in tedesco, sono
queste le tre forme che si imparano, quelle da cui si formano tutti i tempi.
Sono i verbi che imparano gli immigrati
approdati a Berlino, dopo tragiche traversate in mare dalla costa africana,
dopo lo sbarco a Lampedusa, dopo il periodo di soggiorno in qualche campo di
raccolta in Italia. Da dove vengono questi uomini dei quali spesso è difficile
definire l’età? Dove andranno? E quando? Al momento sono accampati in Oranienplatz, sotto delle tende. Le
voci di un verbo esprimono il tempo dell’azione: che significato può avere il tempo per delle persone che cercano
di non pensare al passato, che non hanno prospettive future, che vivono un presente
fatto di niente, che dormono per far passare un tempo inutile di non vita?
Anche Richard,
professore emerito di filologia classica, si trova ad affrontare
improvvisamente il problema del tempo, ora che è in pensione. Abita in quella
che ‘un tempo’ (ecco, ancora il tempo) era la Germania dell’Est, sua moglie è
morta da cinque anni, non ha figli, ha messo il suo passato di libri e
scartoffie in scatoloni. Come riempirà le giornate vuote? Vede in televisione
le manifestazioni in Oranienplatz e la sua mentalità di studioso gli suggerisce
una ricerca, un sondaggio-
incontrare quegli uomini e fare loro domande. Si sa così poco di loro. Da che
cosa sono fuggiti? Avevano famiglia? genitori? Moglie e figli? Che lavoro
facevano? Che tipo di vita conducevano? Le domande che si possono fare non
saranno mai abbastanza per comprenderli.
E poi, in che lingua riuscirà a comunicare con loro? Richard scoprirà che più o
meno tutti parlano un inglese e un italiano smozzicati, il tedesco lo
impareranno lentamente, con fatica. Gehen,
ging, gegangen.
Si spalanca un mondo nuovo davanti a
Richard. Mai si era reso conto della sua
ignoranza riguardo a quel continente che si chiama Africa, dove una volta i
tedeschi avevano delle colonie e si comportavano da padroni di fronte ad una razza
inferiore (se Hitler avesse vinto la guerra…). Gli uomini citano stati che
Richard non saprebbe collocare sull’atlante- dov’è il Burkina Fasu? E qual è la
capitale del Ghana? E del Senegal? Che lingua si parla laggiù?
Raccontano di guerre, di morti e sangue, di padri uccisi
davanti ai loro occhi, di fughe attraverso il deserto senza acqua, di barconi
strapieni, di bottiglie calate in acqua per bere almeno acqua di mare (qualcuno
era impazzito, molti erano morti), di episodi di salvataggio da parte della
marina italiana che erano finiti con il rovesciamento del barcone e 550
annegati su 800 (i due bambini di Rashid erano scomparsi tra le onde), di
lavori dignitosi e anche di prestigio che avevano ‘un tempo’.
Richard
ascolta, prende nota, impara a conoscere
ad uno ad uno quegli uomini che sembravano tutti uguali. Richard è sempre più
coinvolto- che cosa può fare il singolo
quando le leggi sono inflessibili e irragionevoli? Quando qualunque cosa gli
uomini intraprendano è inutile perché hanno diritto di asilo solo nel paese
dove sono sbarcati, cioè in Italia, e non possono lavorare (come desiderano
tutti) se non hanno ottenuto asilo politico (e in Italia non c’è lavoro)? Ma
Richard è nato durante la guerra, sa bene che cosa succede se il singolo si tira indietro pensando di non poter fare nulla. E’
consapevole del rischio che ‘il popolo
dei poeti’ si trasformi un’altra volta nel ‘popolo degli assassini’. E
ingaggia uno perché gli pulisca il giardino, trova un posto come badante
provvisorio per un altro, ne invita un altro ancora a casa sua perché questi ha
detto che gli piacerebbe suonare il pianoforte (non ne aveva mai visto uno),
festeggia il Natale insieme a quegli uomini che si incantano come bambini
davanti alla piramide di angeli che gira, mossa dal fumo delle candele. Richard
cambia e cambia anche il suo modo di giudicare gli ‘amici’. Pensa all’uomo che
gli ha detto ‘io non so più chi sono’ e non
c’è più posto accanto a lui per chi ha parole di disprezzo per i ‘negri’.
Jenny Erpenbeck ha scritto un libro importante e bellissimo, in parte
romanzo, in parte saggio, in parte cronaca giornalistica, in parte denuncia
politica. E ha avuto coraggio. E sensibilità. E ha saputo differenziare i
personaggi attraverso le loro storie e i loro comportamenti, scrivendo un libro
che si legge di un fiato, perché noi
siamo Richard e i profughi sono quelli che vediamo ogni giorno, quelli che
raccontano a Richard che gli italiani cambiano posto, in metropolitana, se si
siedono accanto a loro.
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