Voci da mondi diversi. Medio Oriente
il libro ritrovato
Meir Shalev, “Fontanella”
Ed. Frassinelli, trad. Elena
Loewenthal, pagg.501, Euro 17,00
E’ inconfondibile la voce di Meir
Shalev tra quelle degli altri scrittori israeliani contemporanei, tutte
peraltro straordinarie. E’ la voce di un grande affabulatore, nello stesso
tempo Sheherazade che racconta e il re che ama ascoltare- come dice di se
stesso Mikhael, il narratore-scrittore del nuovo romanzo di Shalev,
“Fontanella”, pubblicato da Frassinelli. Come già in “Per amore di una donna”
e, soprattutto, ne “Il pane di Sarah”, Shalev racconta la storia di una
famiglia, ma poi quella storia si allarga e diventa anche quella dei parenti
d’acquisto e dei vicini di casa e degli abitanti del villaggio, arabi e
israeliani, e potrebbe non finire mai, ricca e palpitante come la vita, e
sembra quasi tracimare dalle pagine oppure abbiamo noi stessi l’impressione di
entrare nel libro e accompagnarci ai personaggi. Tutti personaggi
indimenticabili, quelli di Shalev, di quelli che in inglese si direbbero
“larger than life”, più grandi della realtà: hanno tutti qualcosa in più che li
fa diventare straordinari, personaggi di un mito, identificabili per una
caratteristica fisica, il corpo gigantesco di uno, la bellezza diafana di
un’altra, un piede zoppo o una mano monca, la fontanella che non si è mai
chiusa nelle ossa del cranio di Mikhael, e poi per i loro atteggiamenti, le
loro manie, il loro linguaggio che diventa un codice segreto di comunicazione,
un lessico familiare. E c’è sempre anche un riferimento ai temi biblici, nei romanzi
di Shalev, il viaggio per arrivare dovunque si stabilisca la propria dimora
nella terra del latte e del miele, la gemellarità come Esaù e Giacobbe, lo
strappo della diaspora. In principio c’era la famiglia Yofe, in “Fontanella”.
Gli Yofe della Corte Yofe, prima di tutto, fondata da Apupa e Amuma, il nonno e
la nonna. E poi anche gli altri Yofe, quelli di Gerusalemme e quelli di
Netanya, quelli che arrivano da tutte le parti del paese per i bar mitzvah, i
matrimoni e i funerali, e che vengono sottoposti ad un esame per verificarne
l’autenticità: gli Yofe fanno gemelli, gli Yofe a letto si coprono con un
piumino, hanno tutti dei nomignoli, bevono brodo bollente, e tutti, ma proprio
tutti, sanno che cosa vuol dire kevas-
schifio, in quale occasione si dice “il pesce è proprio squisito” anche se non
c’è traccia di pesce, e “ti ricordi, Yehudit” anche se non c’è nessuna Yehudit
presente. Due nodi principali da cui si
srotolano le storie e a cui si ritorna di continuo: il viaggio che Apupa
ha fatto attraverso la terra di Israele, portando Amuma sulle spalle, diretto
dalle indicazioni di lei, fino al “qui” dove hanno costruito la casa e dove
sono nate le quattro figlie; e il quinto compleanno di Mikhael, quando
all’improvviso si incendiò il campo intorno a lui, una giovane donna si era
gettata tra le fiamme per salvarlo e lui l’aveva amata per sempre, con
l’adorazione di un bambino, con l’amore di un adolescente, con il rimpianto
dell’uomo adulto sposato con un’altra donna. In fin dei conti c’è sempre
l’amore al centro delle storie di famiglia, l’amore tra il nonno e la nonna,
quello del violinista Hirsch Landau per la nonna, del “genero” per la figlia
più bella che però ha un figlio da un altro, della figlia Rachel per l’uomo che
resterà sempre “il ragazzo” perché morto in guerra, del padre di Mikhael per le
sue “sciantose”, del nipote Gabriel per la sua “truppa innamorata” ( e il nonno
non sospetta minimamente che ci sia altro che cameratismo tra quegli uomini),
della figlia di Mikhael per i suoi molti “cavalieri”.
Ma l’amore può
trasformarsi in silenzio, può diventare solo “coito amoroso” (è sempre
linguaggio yofesco), può essere un’attesa continua come quella del gemello Uri,
il genio dei computer, può trasformarsi in ripudio quando una figlia sposa un
tedesco: lei sarà sempre chiamata “Uberalles” e lui “Hitlerjugend”, partiranno
in esilio per l’Australia. Su molte di queste storie il narratore Mikhael
ritorna parecchie volte, con una sensibilità fine che lui attribuisce alla
famosa fontanella, al suo “terzo occhio” che gli permette di percepire quello
che passa inavvertito per gli altri, perché gli Yofe ricordano tutto, per loro
il ricordo “produce talee, allunga radici”. E Mikhael aggiunge dei dettagli, si
sposta avanti nel tempo, in un presente in cui la figlia legge da sopra la sua
spalla quello che lui sta scrivendo al computer, il nonno gigantesco si è così
rimpicciolito da stare nell’incubatrice che era stata del nipote prediletto (e
noi ci domandiamo se è vero o se il ricordo si è ridimensionato), per tornare
al passato, risvegliando profumi e rumori, parole di scherzo, d’ira e d’amore,
gioie e dolori. Lasciando in sospeso delle varianti che sarà facile correggere
o definire con il computer- anche se poi lo scrittore non lo fa, lasciando al
testo quella lieve incompiutezza che è della vita.
Ho riletto questo romanzo a distanza di più di 10 anni e ho ritrovato il mondo che ricordavo. Finalmente una recensione lunga e accurata su uno dei libri più belli della narrativa israeliana contemporanea. Casualmente lo hai postato nel giorno di una ricorrenza familiare che per me ha un grande significato... come dire ogni famiglia ha la sua Corte Yofe e forse ognuno di noi ha la sua fontanella.
RispondiElimina