vento del Nord
Tranne l’altezza, di svedese Jonas
Hassen Khemiri, figlio di padre tunisino e madre svedese, non ha proprio
niente. O meglio, ha anche lo splendido inglese in cui parla, come tutti, ma proprio
tutti, gli altri svedesi che ho conosciuto. È reduce dall’evento del Festival
in cui era protagonista ed è stanco. Lo assicuro che non sarà un’intervista
impegnativa, che ci sbrigheremo in fretta.
Questo è un libro che parla di padri e di un padre e un figlio e del
rapporto fra padre e figli. In un certo senso questo è un libro più ‘ricco’ di
“Una tigre molto speciale” perché anche il figlio è diventato un padre. Come ha
cambiato, il diventare padre, il suo modo di vedere l’essere genitori?
Il figlio si lamentava dell’assenza del padre in “Una tigre molto
speciale” e se ne lamenta anche adesso, in questo romanzo. Eppure il figlio è
tentato di scappare, di lasciarsi tutto dietro. Che cosa lo fa ritornare?
Il rendersi
conto che non può esistere senza la sua famiglia, che è legato a loro per
sempre. Quando torna a casa, lui spezza la maledizione della sua famiglia. È
capace di fare quello che i suoi genitori sono stati incapaci di fare. In
quell’attimo è libero. Uno dei temi del libro è questo: essere una famiglia ed
essere libero. I protagonisti vogliono essere liberi all’interno della
famiglia.
Fa un uso molto particolare dei diversi punti di vista, passando dalla
terza persona alla prima, inframmezzando il discorso diretto. È tutto molto
vivace e a volte buffo. Presta anche voce ad una sorella morta e ad un bambino
di un anno: che cosa voleva mostrare al lettore attraverso i loro punti di
vista?
Pensavo che
la sorella morta sarebbe intervenuta e che sarebbe stata molto arrabbiata per
essere stata abbandonata e poi mi sono sorpreso che in realtà lei fosse l’unica
che sembrava amare il padre. Era la più libera tra i personaggi del romanzo,
era stata capace di perdonare. Aveva raggiunto la libertà perdonando.
È stato buffo scrivere dal punto di
vista del bambino di un anno. La sua prospettiva sulla famiglia mostra che, in
un certo senso, è lui il più adulto, ha iniziato a comportarsi come un adulto,
ma è sempre la prospettiva di un bambino piccolo.
Lei ha scelto di prendere il congedo parentale. In Italia è molto raro
che un padre faccia questa scelta, io non conosco nessuno che l’abbia fatta.
Sono stata di recente a Stoccolma, avevo appena letto il suo libro e ho
osservato quanti padri ci fossero, in giro, con bambini piccoli. Non padri e madri, non padri separati che erano di
turno per stare con i bambini, ma padri che, evidentemente, erano in congedo
parentale. C’erano motivi pratici per fare questa scelta, o era una esperienza
che Lei voleva fare?
In Svezia non è niente di speciale
che un padre prenda il congedo parentale. Anzi, un padre che non lo prendesse sarebbe stigmatizzato,
sarebbe veramente una brutta cosa. Quello che è particolare di questa famiglia
è che il figlio è terrorizzato di poter essere come suo padre. Niente è facile
in questa famiglia: il padre era stato un buon padre quando i figli erano
piccoli e poi era scomparso. Il congedo parentale per i padri è una maniera per
cambiare il mondo del lavoro: se entrambi i genitori stanno a casa, la nascita
di un bambino non significa che solo la mamma starà a casa dal lavoro, non
significa che solo gli uomini possono fare carriera perché le donne vengono
fermate dalla nascita di un bambino. Il congedo prevede che ci siano alcuni
mesi che solo il padre può prendere e
sarebbe stigmatizzante andare in giro a dire che non li hai presi. Verresti
giudicato malissimo.
Qual è stata la parte più pesante nell’esperienza del congedo per
paternità? E la maggiore ricompensa?
La maggiore ricompensa- è difficile
sapere come sarebbe stato se io non fossi rimasto a casa. È bello vedere che i
nostri bambini, se si fanno male giocando, chiamino indifferentemente il papà o
la mamma. La cosa più sconcertante per me era che il mio corpo era là ma la mia
mente no. Mi sembrava che non ci fosse niente che valesse la pena di scrivere
sul congedo di paternità perché il dramma era assente. Poi mi sono reso conto
che semplicemente descrivere una mattina con due bambini era come un film
d’azione. Stava a me trovare valore nella mia vita senza cercare il dramma da
qualche altra parte.
La parte più pesante? la noia e il
desiderio di andarsene.
Lei appartiene a due culture. Si è mai sentito diviso fra queste due
culture diverse?
No, non ho mai avuto la sensazione di
essere diviso tra due culture. Dalla mia prospettiva queste due culture sono
simili. Molti hanno cercato di convincermi del contrario e io, quasi per
ripicca, continuo a dire che sono simili. La differenza più grande tra le mie
due famiglie di appartenenza è quella economica: la famiglia di mio padre era
molto povera, a differenza di quella di mia madre. Sono i soldi a fare la
differenza. Piccole divergenze economiche possono insinuarsi tra le persone e
creare una frizione.
Accompagnando suo padre all’aeroporto in automobile il figlio dice al
padre, “Ti perdoniamo”. Da dove viene questa capacità di perdono? Dall’aver
condiviso l’esperienza di essere padre?
Forse più dal dolore del rendersi
conto che nessuno lascia i figli di sua propria volontà. E poi il figlio vede
da vicino quanto sia doloroso per la sorella non poter stare con il figlio. Il
perdono è forse una parola grossa, forse è meglio dire che si capiscono meglio.
Il perdono è una specie di comprensione e alla fine il figlio è grato al padre
perché gli ha insegnato che cosa non
debba fare.
recensione e intervista saranno pubblicate su www.stradanove.it
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