lunedì 9 settembre 2019

INTERVISTA A HARALD GILBERS, autore di “La lista nera” ed. 2019


                                       Voci da mondi diversi. Area germanica
                                    cento sfumature di giallo


Giorni intensi, quelli del Festival della Letteratura di Mantova, giunto alla sua ventiduesima edizione. Giorni in cui ci si muove per la città per andare da un evento all’altro, giorni in cui tutti, ma proprio tutti, parlano di libri e di scrittori.
Piove, la mattina in cui incontro Harald Gilbers. Dobbiamo cercare rifugio ad un tavolino sotto i portici. Forse però è questa l’atmosfera giusta per parlare dei suoi romanzi, della guerra, di Berlino in macerie.

Ho letto tutti e quattro i suoi romanzi e mi è diventato sempre più chiaro, mentre leggevo, che i suoi libri vanno al di là dei limiti del genere. Che cosa aveva in mente quando ha iniziato a scriverli, che cosa c’è dietro la trilogia di Berlino?

     Quando ho iniziato il primo romanzo, mi sono messo a scrivere il tipo di romanzo che io avrei voluto leggere. I romanzi storico-polizieschi mi paiono troppo superficiali. I romanzi storici tendono ad essere aridi- io ho cercato di mescolare tutto quello che mi interessava. Ho studiato Storia e Letteratura e anche Letteratura inglese e Storia americana della cultura: ha un approccio diverso alla Storia, un approccio interdisciplinare che combina arte, storia, musica, vita privata, un approccio che non è comune nella Storia tedesca tradizionale che si concentra di più su date e fatti. Io volevo sapere anche delle vite private: i miei nonni erano già morti, io ero curioso, mi era chiaro che non volevo i tradizionali romanzi con delitto, volevo un’ambientazione storica. In generale la trama con delitto è un mezzo per spiegare un contesto storico. Oppenheimer voleva scoprire le motivazioni dell’assassinio, come l’ambiente storico influenzasse le persone.

Pensavo che la trilogia avrebbe concluso la serie con Oppenheimer come protagonista, e invece prosegue con “La lista nera”. Ha cambiato idea?
      Quando ho scritto il primo romanzo, pensavo a una struttura diversa, pensavo ad un primo romanzo che si svolgesse nel 1944, e poi uno nel 1949 e uno nel 1953. Pensavo di far passare un tempo più lungo nelle ambientazioni dei romanzi, e però era intrigante scrivere dei cambiamenti di Berlino in un tempo più ristretto. Il mio editore mi sollecitò a scrivere più romanzi ambientati durante la guerra e io ho seguito il suo consiglio.

Ho pensato parecchio a Oppenheimer, alla scelta del suo nome- al termine di “Atto finale” viene chiesto a Oppenheimer se abbia parenti negli Stati Uniti- e alla Sua scelta di aver fatto di un ex ispettore ebreo il personaggio principale dei Suoi romanzi. Che possibilità Le dava questa scelta?
Julius Oppenheimer
     Il concetto base è che Oppenheimer è un perdente, uno di quei personaggi che i lettori amano. Avevo chiaro quello che volevo fare- descrivere i bombardamenti, mostrare gli effetti devastanti della guerra, ma non cadere, però, nella trappola revisionista: il nazismo fu un crimine. Volevo sottolinearlo scegliendo un personaggio ebreo che è in pericolo perché può essere mandato in un campo di concentramento: nel primo romanzo gli assassini sono al governo. Alcuni ebrei potevano ancora vivere a Berlino nel 1944. Goebbels si lamentava che Berlino non potesse essere Judenrein. Nel gennaio del 1945 gli ultimi ebrei di Berlino furono deportati nei campi. Una delle mie fonti è Viktor Klemperer: la sua situazione, descritta nei suoi diari, è simile a quella di Oppenheimer. Nel 1944 Oppenheimer è un perdente, un estraneo. Avevo bisogno di un nome e nel 1944 Oppenheimer sarebbe stato subito riconosciuto come un nome ebreo. Non volevo neppure sembrare insolito nella mia scelta. Poi ho visto un film del 1942 della propaganda nazista, “Suss l’ebreo” con la regia di Veit Harlan, in cui c’è la tipica figura dell’ebreo cattivo. Il nome del personaggio principale era Oppenheimer.
Nei primi tre libri ‘smonto’ questo personaggio e alla conclusione di “Atto finale” lui ha toccato proprio il fondo, si domanda se esista la giustizia. Poi, in “La lista nera”, si sta ricostruendo a poco a poco.

In “La lista nera” Lei esplora la colpa, vari gradi di colpa. Le vittime dell’assassino sono colpevoli minori, ma anche il silenzio degli abitanti di Weyburg è colpevole. È il silenzio, il ‘non c’ero, non sapevo, non ho visto’, la colpa che tutti hanno in comune?
    Il silenzio li rende complici. Distolgono lo sguardo. E’ un male strutturale che non è poi così male di per sé, ma diventa una minaccia quando si tratta di molte persone tutte insieme. I piccoli nazisti diedero a Hitler un grande potere: usavano l’opportunità a loro vantaggio. Quindi era un Male che veniva non tanto dai grandi al potere ma dalla gente comune.


Come lettrice ho trovato impossibile non simpatizzare con l’Angelo della Morte. Anche Oppenheimer lo capisce fin troppo bene. La tensione finale fra i due uomini è fortissima. Le è stato difficile pensare ad un finale equo?
    La fine del libro è quella che ho scritto all’inizio. Non potevo salvare l’Angelo della Morte, un personaggio tragico. Oppenheimer lo capisce. In altre circostanze Oppenheimer sarebbe stato come lui. L’assassino diventa la vittima e le vittime sono gli assassini. Fin dall’inizio la fine mi era chiara. Ho scritto mirando alla fine perché la fine andasse bene per quello che avevo scritto. Come in “Atto finale”.

Il paesaggio del lago ghiacciato e dell’imbarcazione imprigionata nel ghiaccio- sono paesaggi dell’anima?
     In una certa maniera sì. Contribuiscono a caratterizzare l’Angelo della Morte. L’imbarcazione è la sua mente. E poi quello del 1946 è l’inverno della fame- l’azione si svolge in questo periodo in cui tutto alla fine è congelato.


In tutti e quattro i romanzi Berlino è protagonista. Deve aver fatto molte ricerche per essere così accurato nelle descrizioni. Ha anche parlato con dei testimoni, con persone che hanno vissuto quegli anni?
     Ho fatto molti viaggi a Berlino per guardare i luoghi che sarebbero entrati nel mio romanzo. La città è cambiata. La si deve immaginare 70 anni fa. Adesso le vittime e la maggior parte dei testimoni sono morti. Ho cercato delle fonti primarie, diari, films, ho ricostruito le immagini della città: ecco, mi è stato possibile ricostruire sulla Storia, mi sarebbe più difficile scrivere un romanzo sulla Berlino di oggi.

Proviamo compassione per il personaggio del bambino Theo. Rappresenta tutte le vittime tedesche innocenti?
      Per me Theo era la possibilità di far iniziare a Oppenheimer una nuova vita con un figlio adottivo che prendesse il posto, in qualche maniera, della figlia morta. Nelle fonti ho cercato dei soggetti interessanti: c’erano tanti bambini rimasti soli, alla deriva, a Berlino. Theo mi serviva come espediente per la trama e nello stesso tempo era vero.


 Recensione e intervista saranno pubblicate anche su www.stradanove.it



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