venerdì 31 ottobre 2014

Chimamanda Ngozi Adichie, "L'ibisco viola" ed. 2012

                                                 Voci da mondi diversi. Africa
                                                         il libro ritrovato


Chimamanda Ngozi Adichie, “L’ibisco viola”
Ed. Einaudi, trad. Maria Giuseppina Cavallo, pagg. 275, Euro 11,00
Titolo originale: Purple Hibiscus   

     “Secondo voi perché vostro padre non vuole che veniate qui?”
    “Non lo so,” disse Jaja.
Io mi succhiai la lingua per scongelarla, e sentii il gusto della polvere sabbiosa. “Perché Papa-Nkukwu è un pagano.” Papà sarebbe stato orgoglioso della mia risposta.
    “Vostro Papa-Nnukwu non è un pagano, Kambili, è un tradizionalista,” disse zia Ifeoma.
    Io la fissai. Pagano, tradizionalista, che importanza aveva? Non era cattolico, tutto qui; non era della nostra fede. Era una di quelle persone di cui chiedevamo la conversione nelle nostre preghiere perché non finissero negli eterni tormenti del fuoco infernale.
   
     Nigeria. Kambili ha quattordici anni. Suo fratello Jaja un paio di più. Il padre Eugene ha studiato all’estero, possiede molte fabbriche, è uno degli uomini più ricchi del paese. E, soprattutto, è molto religioso: preghiera di ringraziamento (lunghissima) prima dei pasti, rosario alla sera, rosario durante i tragitti in automobile, confessione e comunione obbligatoria per tutta la famiglia. La domenica in cui Jaja non si avvicina all’altare per ricevere l’ostia il padre scaglia il messale contro la vetrinetta che contiene la collezione delle statuine della madre: è la scena chiave del libro, quella che inizia il racconto di Kambili che procede a ritroso per ricongiungersi poi con questo momento che segna il cambiamento, la ribellione al padre-padrone.
    Della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie avevamo già letto “Metà di un sole giallo”, un bellissimo libro (vincitore dell’Orange Broadband Prize 2007) sulla guerra del Biafra. “L’ibisco viola” è precedente, pubblicato nel 2003 quando l’autrice aveva ventisei anni, ed è, nello stesso tempo, storia di una famiglia e storia di una nazione: il comportamento autoritario del capofamiglia Eugene riflette quello del governo dittatoriale, le severe punizioni corporali che Eugene infligge a chi fuoriesce dalla retta via (secondo lui) sono soltanto di poco più lievi di quelle subite dai ribelli al regime.
Kambili è la narratrice ‘esterna’ che racconta gli avvenimenti famigliari. Kambili non è obiettiva: venera il padre, lo ammira, giustifica ogni suo comportamento, fa di tutto per guadagnarsi le sue lodi. Forse potremmo dire che Kambili è plagiata dal padre. O forse è il terrore camuffato da amore che la spinge a non dubitare degli ordini paterni o della giustezza delle sue reazioni. E’ il meccanismo del culto della personalità e dei regimi totalitaristi: se il padre punisce uno di loro, vuol dire che questi ha fatto qualcosa per meritare la punizione. Kambili non capisce perché non vuole capire. Non interpreta i colpi sordi che sente provenire dalla stanza dei genitori perché non vuole sospettare suo padre di violenza nei confronti della madre. Non vuole attribuire lividi e gonfiori alle percosse del padre.

Probabilmente Eugene manterrebbe il suo potere sulla famiglia se sua sorella non venisse in visita con i tre figli, se questa non insistesse perché Kambili e Jaja abbiano il permesso di fare una breve vacanza con i cugini. L’atmosfera a casa della zia è del tutto diversa da quella in casa loro: la zia insegna all’università, vive in una zona dove spesso mancano acqua e elettricità, il cibo è quello dei poveri. Ma c’è allegria nella sua casa. C’è allegria persino nella chiesa che frequentano dove si cantano anche canzoni igbo. C’è aria di libertà in casa della zia- l’ibisco dai fiori viola che cresce in giardino ne è il simbolo. Jaja è più pronto a sentire l’influsso del cambiamento. Kambili ha paura di tutto, è paralizzata interiormente. Continua ad obbedire alle leggi del padre perché teme che lui possa ‘vederla’ a distanza. Eppure, quando Kambili e Jaja ritornano a casa, non sono più gli stessi. Hanno imparato che non è necessario essere così fanaticamente osservanti per essere buoni. Anzi. Che tradizionalismo non significa paganesimo (come sostiene il padre che ha troncato i rapporti con il suo anziano genitore per il suo rifiuto di convertirsi). Che la gioia non è peccato e che l’osservanza della parola può esserlo.

       Il finale è sconvolgente e inaspettato in questo insolito romanzo di formazione dove amore e odio scorrono sotterranei e sono spesso indistinguibili l’uno dall’altro. Dove diventare adulti, sia per un individuo sia per un popolo, significa capire la necessità assoluta della libertà e saper essere liberi.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it




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