Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Barry Eisler, “Rain Storm. Pagato
per uccidere”
Ed. Garzanti, trad. Gianni Pannofino,
pagg. 369, Euro 16,50
John Rain, killer di professione,
riceve dalla CIA l’incarico di eliminare Belghazi, un trafficante d’armi
implicato nel terrorismo islamico in Estremo Oriente. Quando arriva a Macao,
sulle tracce di Belghazi, scopre che c’è anche qualcun altro che ha il suo
stesso incarico, ma per conto di chi? E che ruolo ha la bella donna che
accompagna Belghazi? Amica o nemica? Il gioco diventa molto pericoloso per lo
stesso John Rain che si ritroverà alla fine piuttosto malconcio.
C’è una possibilità pressoché infinita di
titoli che giocano sul nome del protagonista John Rain per i prossimi libri
dello scrittore americano Barry Eisler, come abbiamo già visto nei romanzi del
tedesco Schlink che ha chiamato Selb il suo investigatore o l’inglese Wingfield
che ha messo in scena l’ispettore Frost. “Rain Storm” è il titolo del romanzo
appena pubblicato, il terzo dopo “Rain Fall” e “Hard Rain” con questo
personaggio singolare, per metà americano e per metà giapponese, che ha fatto accentuare i suoi tratti
giapponesi con un intervento chirurgico, ha combattuto in Vietnam ed è un
killer free-lance che lavora per lo più per la CIA , specializzato nell’uccidere senza lasciare
traccia, simulando una morte della vittima per cause naturali. In “Rain Storm”
la vittima predestinata è un tal Belghazi, trafficante d’armi, presente a Macao
in apparenza per dedicarsi alla sua passione, il gioco d’azzardo.
Va da sé che
non è facile avvicinare un uomo del genere, sempre scortato da guardaspalle
scrupolosissimi nell’accertarsi della sua sicurezza in ogni luogo. E ci
vorranno 350 pagine per riuscire ad ucciderlo ma, prima che si compia questa
morte annunciata, differita e con una modifica nei piani, John Rain si lascia
dietro una scia di cadaveri- mors tua
vita mea, sono omicidi inevitabili quando il nostro protagonista scopre che
non è l’unico incaricato di far fuori Belghazi (a chi altro interessa la sua
morte?) e che, ad un certo punto, è lui stesso a venire cacciato e deve colpire
per non essere colpito. E John Rain colpisce sempre con velocità e precisione
sorprendenti, agilissimo nonostante i cinquant’anni, specializzato in una mossa
che spezza il collo della vittima, pieno di risorse e supportato da dispositivi
tecnici che facilitano la vita del killer (e gliela allungano).
“Rain Storm” è un romanzo d’azione, un
thriller nel senso che comunica al lettore dei brividi di eccitazione
nell’attesa di quello che deve accadere, con un ritmo serrato che non rallenta
neppure nelle scene di schermaglia amorosa tra John e la bionda che accompagna
Belghazi. Perché è subito chiaro che non è una semplice amante, o “hostess” o
accompagnatrice, che anche lei ha delle mire su Belghazi, o meglio sul suo
computer, che ha seguito una scuola d’addestramento severa e altamente
specializzata quanto quella di John- e poi, ci si può fidare di una donna che
si chiama Delilah come colei che ha consegnato Sansone ai filistei?
In uno scenario bellissimo che Barry Eisler
pare conoscere altrettanto bene quanto John Rain, tra Macao e Hong Kong, dietro
la trama di inseguimenti e fughe, appostamenti e agguati, si delinea un’altra
trama giocata su spazi molto più vasti, con pedine mosse dall’alto senza regole
fisse, seguendo opportunità politiche che non si ammantano della neppur minima
parvenza di ideali. E John Rain è stato a suo tempo una di queste pedine, quando
è andato giovanissimo in Vietnam con licenza d’uccidere- per scoprire al
ritorno che la licenza non era valida- e poi ancora in Afghanistan, al tempo in
cui l’America era amica di quelli che chiamava “muji” e che poi sarebbero
diventati più semplicemente e genericamente “terroristi”. Stilos ha
intervistato l’autore di questo brillante thriller politico.
Prima di tutto devo dire che mi sono sempre piaciuti i romanzi che hanno
un killer per protagonista. Poi- vivevo a Tokyo nel 1993 e mi esercitavo nello
judo, e tutte queste cose insieme, l’esperienza di vivere in Giappone, lo judo,
andare nei jazz club con degli amici appassionati di musica jazz, hanno
contribuito alla creazione del personaggio di John Rain, l’assassino per metà
giapponese e per metà americano.
Quando ha pensato al personaggio
di John Rain, si è posto il problema di quale uomo potesse mai fare la scelta
di diventare un killer ed è per questo che gli ha dato un passato da
combattente in Vietnam? Perché- come dice spesso John nel primo libro della
serie, “Pioggia nera su Tokyo”- non si torna a casa dal Vietnam?
Assolutamente sì, una delle cose che non mi piacciono delle storie con
gli assassini e che cerco di evitare nei miei romanzi è il fatto di non sapere
da dove vengano, come fanno a diventare degli assassini prezzolati. Perché non
è una scelta ovvia, non è come decidere di fare il medico o l’avvocato. Ho
passato parecchio tempo a pensare e ad elaborare un passato che spiegasse
realisticamente come John Rain fosse diventato quello che è e mi è parso che
l’esperienza del Vietnam potesse spiegare la sua scelta- di restare sempre in
guerra, come dice lui stesso.
John dice di non essere un samurai e tuttavia il suo amico Tatsu parla
di lui come se lo fosse. Fino a che punto possiamo dire che John è- o non è- un
samurai?
Nel mondo occidentale tendiamo a pensare ad
un samurai come ad un guerriero. E’ vero che i samurai erano guerrieri ma
soprattutto erano al servizio di una causa più grande di loro. In un certo
senso Rain non è un samurai, lui stesso nel primo romanzo della serie dice di
non servire una causa, di essere stato tradito dalla causa in cui credeva, di
non aver più nessuna illusione. Ma sono le cose che dice a se stesso, questa
non è la sua natura. Rain vorrebbe avere una causa da servire e Tatsu vede in
lui questa motivazione. Per Tatsu Rain ha il cuore di un samurai anche se non
vive la vita di un samurai. Per Tatsu il non essere un samurai è per Rain un
tradimento della sua natura migliore.
L’ambientazione dei suoi romanzi è l’Estremo Oriente, soprattutto il
Giappone, Macao e Hong Kong in questo romanzo. Che cosa la attira in Giappone?
Il mio interesse per il Giappone è iniziato
con le arti marziali: quando ero al college ero appassionato di karate e di
judo. Da quell’interesse per le arti marziali è venuto l’interesse per la
cultura giapponese in generale e più imparavo più volevo imparare. Alla fine ho
trovato la maniera di vivere in Giappone, lavorando in uno studio legale. Era
il 1991, sono andato a Tokyo e mi sono innamorato immediatamente di quella
città. E la amo ancora.
Nel primo romanzo della serie ci sono spesso frasi in giapponese che si
inseriscono benissimo nel contesto, creando un’atmosfera “locale” come fa
Clavell nel suo “Shogun”. Come mai
John non parla quasi più in giapponese in quest’ultimo
romanzo?
Bel romanzo “Shogun”…E’ un’osservazione
giusta: ho vissuto tre anni in Giappone, abitavo là quando ho scritto il primo
libro e mi veniva naturale inserire delle frasi in giapponese. Forse, se lo
riscrivessi adesso, non lo farei più perché mi è stato rimproverato che i
lettori possono trovarsi in difficoltà…
Quando ha iniziato a praticare le arti marziali, lo ha fatto considerandole
un mezzo di difesa o di offesa?
Di difesa, naturalmente. Le arti marziali sono uno strumento, la
filosofia che è dietro le arti marziali è che la spada non è né buona né
cattiva, è solo una spada: c’è quella buona che è quella della giustizia ed è
la spada che dà la vita, e c’è quella cattiva che invece prende la vita ed è la
spada dell’oppressione. Quello che importa è il proposito a cui si impiega, per
fini buoni o cattivi. Perché ho iniziato ad interessarmi alle arti marziali?
Perché da bambino sono stato spesso una vittima del bullismo a scuola e ne ho
sofferto molto. Iniziare a praticare le arti marziali significava non dover più
essere vittima di soprusi e prepotenze, potevo restituire i colpi.
Appare chiaro nel libro che lei conosce bene la CIA. Parafrasando l’ “Amleto”,
si potrebbe dire che “C’è del marcio negli Stati Uniti”…
Penso che il marcio negli Stati Uniti sia
soprattutto a livello politico. La
CIA è come quella spada di cui parlavamo, un servizio di
intelligence è necessario, come la spada, ed è l’uso che se ne fa che determina
se è buona o cattiva. Per citare ancora Shakespeare, “Giulio Cesare” questa
volta, “la colpa non è nelle stelle, ma in noi stessi”. E sì, la mia conoscenza
dell’ambiente è determinata dal fatto che ho fatto un tirocinio per tre anni
per operare come spia- mi intrigava questo aspetto della vita delle spie,
l’avere una vita segreta.
Come prepara le scene dei romanzi? Sembrano costruite meticolosamente in
ogni dettaglio, per non lasciare spazio al caso, soppesando tutte le
possibilità di rischio e pericolo.
La cosa buffa è che questa meticolosa
preparazione si basa sull’allenamento e il miglior allenamento è il
raffinamento del comune buon senso. Se uno progetta qualcosa, c’è un processo
logico da seguire: per prima cosa ci si deve chiedere qual è l’obiettivo che si
vuole raggiungere e subito dopo si deve lavorare a ritroso. Si inizia con la
domanda ‘che cosa?’ e si procede con ‘come?’ e ci saranno livelli multipli di
‘come’. L’esperienza aiuta. Ci vuole buon senso per capire il procedimento, poi
si deve avere esperienza. Alle spie si insegna che cosa fare, come costruire
una realtà alternativa nei minimi dettagli e ci vuole un vero talento per
l’inganno.
Nel libro si cita spesso l’11 settembre: il mondo è certamente cambiato
dopo l’11 settembre, sono cambiati anche i suoi romanzi?
Forse sì. Se uso l’11 settembre, non uso
l’evento in sé, quello che mi interessa sono le tendenze che hanno preso il via
dopo l’11 settembre. Se scrivi dei thriller politici ambientati ai nostri
giorni non puoi evitare l’impatto dell’11 settembre perché ha cambiato tante
cose nella società e nella politica americana.
Ad un certo punto del libro John è a Las Vegas e ci sono parole molto
dure contro il mondo dei giochi. Ci sono due facce degli Stati Uniti? Come una
specie di schizofrenia? Ci sono due mondi, uno che manovra opinioni e passioni
e uno che lavora per il suo interesse?
Per qualunque azione c’è una ragione vera
come spiegazione e una che è quella che si presenta alla società, come una
doppia faccia. In Giappone ci sono addirittura due parole per dire questo. C’è
sempre la verità che possiamo affrontare e le motivazioni più profonde che
preferiamo occultare. Mi fa piacere che abbia notato quel passaggio su Las
Vegas perché per me Las Vegas è una città affascinante, anche se non vorrei
passarci tanto tempo. Las Vegas rappresenta al massimo la spaccatura tra il
mondo scintillante dei soldi, del divertimento, dell’apparenza e quello che c’è
sotto la superficie, i desideri più bassi, la lussuria, l’avidità e la
disperazione che alimentano Las Vegas. Mi piace questa sfasatura.
Ci sono tre donne in “Rain Storm”: Midori che appare come un ricordo,
Noemi che John deve lasciare e Delilah, che ha un nome molto pericoloso. Riapparirà
negli altri romanzi Delilah?
Certamente incontreremo ancora Delilah- in
America sono già stati pubblicati altri due romanzi e quindi è una cosa certa.
Delilah è più giovane di Rain, ma c’è una forte attrazione sessuale tra di
loro. Delilah appartiene al mondo di Rain, mentre Noemi è giovane e innocente e
ci sono troppe cose a dividere Rain da Midori- prima fra tutte il fatto che
Rain, come sappiamo dal primo romanzo, ha ucciso suo padre. Midori e Noemi sono
due persone normali, mentre Delilah è quella che può capire meglio Rain. Sono
due professionisti, quando si incontrano sanno che sono pericolosi l’uno per
l’altra, che l’uno potrebbe uccidere l’altra e viceversa, si capiscono così
bene che da una sfiducia così aperta può nascere la fiducia tra di loro.
Delilah e Rain sono perfettamente a loro agio tra di loro perché sanno chi
sono, sanno che tutto può finire.
John Rain è un assassino, non possiamo ammirarlo, eppure ci è
simpatico: perché ci piace John Rain?
Ci piace perché lo conosciamo, perché anche
se agisce male ha un senso dell’onore, è buono con gli amici, è leale, e
attorno a lui ci sono queste persone corrotte e false, e in paragone a loro lui
è un personaggio positivo. Ha presente “Il padrino”? Libro fantastico. Don
Corleone è un assassino, ma è anche un marito e un padre straordinario, ha
forti valori famigliari, è leale, ha una morale- niente droga e niente
prostituzione- e quelli che invece dovrebbero essere gli eroi, i poliziotti e gli
uomini politici, sono corrotti. E noi ammiriamo Don Corleone, ci piace, come ci
piace John Rain.
recensione e intervista sono stati pubblicate sulla rivista letteraria Stilos
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