Voci da mondi diversi. Area germanica
Voci da mondi diversi. Cina
Storia di famiglia
Lin Hierse, “Sogni di giada”
Ed.
ObarraO, trad. Federica Garlaschelli, pagg. 160, Euro 15,20
In
una lingua il mio nome è composto da tre lettere, in un’altra da dodici tratti.
In una lingua non indica nient’altro che me. In un’altra lingua significa giada.
Due lingue, due culture, distanti tra di loro quanto possono essere i due numeri- 3 e 12- delle lettere e dei tratti per scrivere il suo nome, Lin. Che è quello della scrittrice nonché voce narrante di questo romanzo autobiografico in cui il trauma dell’emigrazione viene trasfigurato in sogni, “Sogni di giada” è il titolo in italiano. Potremmo scrivere la lettera g maiuscola, e allora sarebbero “Sogni di Giada”, in un gioco di parole che mette l’autrice al centro della nostra attenzione. Per non dire che i braccialetti di giada sono una traccia da seguire nel romanzo- il braccialetto che viene sepolto insieme alle ceneri di A’bu, quello di Mā, il suo, quelli che indossano tutte le donne cinesi, perché la giada porta fortuna, perché nei tempi antichi la gente credeva di poter entrare in contatto con gli dei tramite la giada. Il braccialetto di giada è diventato un segno distintivo per le donne che hanno lasciato la Cina- lei, Lin, che non ha mai lasciato la Cina, che è sempre e solo andata avanti e indietro per incontrare i parenti rimasti a Shanghai, lei ha il diritto di portare il braccialetto di giada al polso?
Sembra essere un interrogativo
di poca importanza, ma il suo significato è più ampio: è cinese, lei? o è
tedesca? Dove sono le sue radici? Dove colloca la sua appartenenza? E il
romanzo è, allora, una storia di famiglia, una storia che scava alla ricerca
della propria identità, la storia di un rapporto- strettissimo- tra madre e
figlia. Un romanzo sincero, onesto, percorso da una vena di poesia, tra passato
e presente.
È anche un romanzo di donne, “Sogni di
giada”. Ci sono degli zii cinesi che Lin incontra quando va a Shanghai o con
cui parla al telefono, ma prevalgono le figure femminili, A’bu (sempre chiamata
così e non è il suo vero nome, è la nonna materna), la nonna (chiaramente è la
madre del padre, tedesca), una zia (sorella della madre), Mā e lei stessa. E il
padre è del tutto assente, di lui non sappiamo nulla, neppure che cosa in lui
abbia fatto innamorare Mā, quando era arrivata in Germania.
Il libro inizia con il funerale della nonna cinese, con un’arrampicata verso il cimitero, in alto su una montagna. Da qui, senza un ordine cronologico, con leggerezza, Lin Hierse intreccia storie del passato con storie del presente, storie di famiglia che sono state condizionate dalla grande Storia- A’bu che ammirava i piedini ‘fior di loto’ di un’altra bambina finché non aveva visto i suoi piedi nudi, con le ossa spezzate, la zia che aveva passato dieci anni nei campi di rieducazione di Mao, Mā che aveva studiato tedesco e aveva lasciato la Cina perché voleva un’altra vita.
Lin ammira sua madre, la ammira così tanto che deve fare uno sforzo per staccarsi da lei, per differenziarsi da lei, per trovare la sua identità. Per questo va a vivere da sola, per questo si taglia i capelli incorrendo nella sua disapprovazione. Il loro rapporto, la loro intesa, la comprensione reciproca, l’affetto che le lega, sono speciali. C’è come un elastico che tiene unite Lin e sua madre, Lin e la Cina, un elastico che, se tirato, le allontana e poi, lasciato andare, le avvicina di nuovo. E allora pensiamo che, nella sua ricerca dell’identità, la scrittrice si sia avvicinata di più a quella di provenienza materna, almeno affettivamente e sentimentalmente, anche se l’immagine che lo specchio le rimanda mostra i segni di un’appartenenza diversa, in un bellissimo incrocio di tratti somatici, in quello che è, in definitiva, uno straordinario arricchimento di culture.
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