Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
guerra dei Balcani
FRESCO DI LETTURA
Jovan Divjak,
“Sarajevo, mon amour”
Intervistato da Florence La
Bruyère
Ed. Infinito, trad. Gianluca
Paciucci, prefazione di Paolo Rumiz, pagg.226, Euro 18,00
Jovan Divjak è un mito.
Lo è in tutta la Bosnia. Lo è in particolar modo a Sarajevo, la sua città che
subì l’assedio più lungo della storia moderna, più lungo ancora di quello di
Leningrado- dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Alla fine dell’assedio la
popolazione della città era il 64% di quella che era prima della guerra. 12.000
i morti, 50.000 i feriti, l’85% tra i civili: a volte i numeri sono necessari
per rendere chiara l’immagine di una tragedia. La popolarità di Jovan Divjak è
dovuta in primo luogo alla sua scelta di combattere- lui, appartenente ad una
famiglia serba ortodossa- nelle file
dell’esercito della Bosnia. Si è trovato quindi nella posizione difficile-
come tutti coloro che condivisero questa scelta e non passarono al versante
della Repubblica Srpska- di essere accusato di tradimento dai serbi e di poter
essere sospettato dai bosniaci. E pagò
caro la sua scelta anche sul piano strettamente personale- un mese di
carcere per motivi non chiari, il ricatto dell’arresto di un figlio, minacce da
più parti, un attentato rivolto a lui. Il suo amore per la Bosnia Erzegovina
non può essere messo in discussione, e neppure il suo comportamento e la sua
partecipazione in prima persona alla guerra. Si vedono ancora le sue fotografie
nei luoghi pubblici a Sarajevo. La gente lo ammira e lo rispetta, per il suo
passato e per il suo presente- un aiuto costruttivo agli orfani di guerra.
Quando ho preso tra le mani “Sarajevo, mon
amour”, ho provato una punta di delusione, perché mi aspettavo tutt’altro. Non
avevo badato alla scritta in alto sulla copertina in cui, sotto il nome di
Jovan Divjak, c’era ‘intervistato da Florence La Bruyère’. Temevo qualcosa di
frammentario che non avrebbe soddisfatto il mio desiderio di sapere. E invece
“Sarajevo, mon amour” è il libro più
illuminante che abbia letto- finora- sulla storia dei Balcani. Una storia
complicata che è iniziata da un solo Stato, la Jugoslavia, che si è frantumato
dopo la morte di Tito (per inciso, l’immagine di Tito nelle parole di Divjak-
ma anche di chi ne parla tuttora in Bosnia- è ben diversa da quella che ci
veniva presentata in Italia all’epoca). Ma la giornalista Florence La Bruyère impone
un ordine alla Storia organizzando
le domande in uno schema ammirevole che troviamo nell’indice: sembrano quasi i
dati di un problema matematico che debba essere risolto alla fine.
Incomincia
con la premessa, “Nell’ombra di Tito”,
segue con “La guerra”, la messa a
punto sulle condizioni dell’esercito (ben misero), “L’Armija”, l’assedio interminabile e le sofferenze dei civili nel
mirino degli sniper a Sarajevo (“I civili nella guerra”), per mettere
a fuoco infine “I protagonisti” (Milošević, Karadžić, Mladić, Tudman,
Izetbegović e i Caschi Blu), e concludere con “La pace imperfetta”. Se l’uniformità delle pagine di un testo di
Storia può scoraggiare e a volte annoiare i non specialisti, il ritmo delle
domande della La Bruyère e delle risposte di Divjak mantiene sempre desta
l’attenzione. La Storia è viva (pur con
il rischio di essere di parte), appassionante. Ci sembra persino di
riuscire ad orizzontarci tra bosgnacchi e bosniaci (attenzione, non sono la
stessa cosa), tra serbi di Serbia e serbi bosniaci, tra croati, cetnici e
ustascia, tra eserciti regolari e le Tigri di Arkan. Di Jovan Divjak ammiriamo
lo sforzo di equità e chiarezza, il tentativo di essere super partes e di soffocare odi e risentimenti, la sua generosità,
il suo amore per Sarajevo.La Rosa di Sarajevo: così sono indicati, per terra, i luoghi dove più di otto persone sono morte sotto il fuoco dei cecchini |
“Sarajevo, mon amour”: il titolo è un omaggio ad un altro grande uomo
innamorato di questa città che non abbandonò neppure durante l’assedio, Kemal Monteno, il cantante figlio di un
italiano di Monfalcone che aveva combattuto in Jugoslavia durante la seconda
guerra mondiale e non era più tornato in Italia dopo aver sposato una donna di Sarajevo
(lasciando peraltro una moglie e una figlia a Monfalcone). Kemal Monteno, voce
romantica dal timbro italiano, è morto nel gennaio del 2015 (“è come se fosse
caduto un grande albero”, hanno detto di lui). Ricordiamolo con la canzone che
amo molto, “Sarajevo, ljubavi moja”.
Cliccando su youtube scorrono le immagini della città amata, martoriata,
risorta.
Jovan Divjak |
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