domenica 13 febbraio 2022

Catherine Chidgey, “Vicinanza distante” ed. 2021

                                  Voci da mondi diversi. Nuova Zelanda

 seconda guerra mondiale

Catherine Chidgey, “Vicinanza distante”

Ed. e/O, trad. Silvia Castoldi, pagg. 586, Euro 18,52

 

     Dalle lettere del dottor Lenard Weber alla figlia Lotte. Francoforte 1946.

     Dal diario immaginario di Frau Greta Hahn. Febbraio 1943 e anni a seguire. Buchenwald.

     Dalle riflessioni intime di mille cittadini di Weimar (8 Km. distante da Buchenwald).

     Da un’intervista con l’ex Sturmbannführer delle SS Dietrich Hahn (funzionario amministrativo del campo di concentramento). 1954.

 

   Sono questi i quattro filoni, le quattro testimonianze che si alternano nel romanzo “Vicinanza distante” della scrittrice neozelandese Catherine Chidgey. Un romanzo per molti versi stupefacente, soprattutto per la capacità della scrittrice di parlarci dell’orrore dei campi di concentramento in maniera nuova, quando pensavamo- a quasi ottanta anni di distanza- che tutto fosse già stato detto e in ogni modo possibile. Perché tutto si svolge fuori del campo, in questo ossimoro di ‘vicinanza distante’ che concede ai personaggi di sapere facendo finta di non sapere, di far entrare quei ‘servi’ nelle loro vite chiudendo il cuore alla compassione, di godere di lussi in stridente contrasto con le privazioni dei prigionieri, di lottare per mesi contro la morte (Frau Hahn pensava si trattasse di una cisti e invece era ben altro) quando al di là delle recinzioni si moriva ogni giorno di malattie, di fame, come conseguenza di esperimenti medici, di lavoro forzato, di torture e atti di violenza: 56.000 il numero totale delle vittime alla fine della guerra.


   Buchenwald, un nome così bello (il bosco di faggi) per un luogo che è diventato sinonimo di disumanità e di morte e chissà che direbbe Goethe che amava sedersi sotto la grande quercia che è rimasta all’interno del campo (ha un significato che bruci dopo il bombardamento?). A otto kilometri da Weimar- i capitoli con le riflessioni dei mille cittadini di Weimar sono lo specchio dell’indifferenza di chi assiste e gira la testa. Anzi, si lamenta del puzzo che arriva dal campo, del cibo di cui non possono godere perché viene dato ai prigionieri. Il loro è un orrendo coro che non cessa neppure quando, dopo l’apertura del campo, vengono obbligati dagli americani ad entrarvi per un tour, continuando a negare.

    Il dottor Weber aveva dovuto divorziare dalla moglie ebrea e poi era stato deportato per aver avuto un nonno ebreo. Da giovane avrebbe voluto salvare il mondo, aveva inventato una macchina, il Vitalizzatore Simpatetico, che avrebbe dovuto curare il cancro con stimoli elettrici. In realtà non aveva funzionato, ma lo Sturmbannführer Hahn ne ha sentito parlare, fa venire Weber a casa sua, vuole che cerchi di curare la moglie Greta. Quello che Weber chiede in cambio sono notizie della moglie e della figlia- sono a Theresienstadt, stanno bene, gli dice Hahn.


     Greta Hahn è molto più giovane del marito, non era mai stata ammalata a Monaco, dove aveva sempre vissuto, ed ora si chiede se la sua malattia sia una punizione. È  un piccolo personaggio commovente e patetico, Greta Hahn. Piccolo in senso letterale, perché la malattia la consuma. Eppure Greta è l’unica che tratta con garbo il servo Josef (un testimone di Geova), quasi fosse un domestico normale, anche se si accontenta delle risposte del marito quando gli fa domande sul campo e su chi ci sia rinchiuso. Greta finge di aver fiducia nel dottor Weber anche quando sa che non le resta molto da vivere, perché ha capito che continuare a farlo venire è l’unica maniera per salvarlo. Prima di morire Greta traccia nella Bibbia un messaggio che è un regalo  per il dottore (lo capirà solo parecchio tempo dopo) e poi, quando il suo cuore smette di battere, è come se un angelo volasse sul campo aggrappato alle ali del falco pellegrino che nel suo delirio da laudano identificava con san Pellegrino, protettore degli ammalati di cancro, sognando di andare sulla sua tomba a Forlì.

Otto Barnewald

     Nella nota finale l’autrice specifica quali dei personaggi del libro siano reali. Alcuni appaiono con i loro nomi (c’è anche la Principessa Mafalda di Savoia), Dietrich Hahn è invece ispirato a Otto Barnewald che ricoprì a Buchenwald la posizione di Dietrich Hahn nel romanzo. Hahn insiste goffamente a giustificare tutto quello che ha fatto, sostenendo la sua preoccupazione per il benessere dei prigionieri- di tutto quello che accadeva non sapeva nulla. Barnewald fu condannato a morte nel processo di Dachau del 1947, ma in seguito la pena fu ridotta e venne rilasciato dal carcere nel 1954.

    Sono quattro punti di vista diversi su cui riflettere- qual è il limite della colpa? Qual è il peso di una traccia di bontà e di amore a confronto di quello della malvagità o dell’indifferenza?



 

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