Voci da mondi diversi. Corea
Guerra
premio Nobel
Han Kang, “Non dico addio”
Ed.
Adelphi, trad. Lia Iovenitti, pagg. 265, Euro 20,00
C’è un altro frammento di storia della
Corea nel libro “Non dico addio” della scrittrice Han Kang, vincitrice del
premio Nobel 2024. Un frammento che fa luce su un episodio forse ancora più
doloroso della rivolta popolare di Gwangju soffocata nel sangue nel 1980 e
rievocata in “Atti umani”- i massacri di Jeju in cui un numero imprecisato di
persone, forse trentamila, forse di più, fu trucidato per eliminare qualunque
supposto simpatizzante comunista. Lo sterminio iniziò il 3 aprile 1948- infatti
viene ricordato semplicemente come ‘Jeju 4.3’- e proseguì nel 1949. Si era alla
vigilia della guerra di Corea, tra il Nord, sostenuto dall’Unione Sovietica e
dalla Cina, e il Sud, sostenuto dagli Stati Uniti. Nella paranoica paura del
Comunismo furono proprio gli Stati Uniti a fomentare i massacri.
La prima parte del libro era stata scritta precedentemente e solo in un secondo tempo Han Kang la rimaneggiò dandole un seguito. È uno stacco che si avverte, tra la prima e la seconda parte, e la prima parte occupa uno spazio troppo lungo, è come un’introduzione personale, tra il sogno e la realtà, ricca di immagini metaforiche, alla seconda parte che è in brutale contrasto con la prima.
La
protagonista, Gyeong-ha, sta passando un periodo difficile- è sola, soffre di
invalidanti emicranie, ha degli incubi ricorrenti a cui non sa dare
spiegazioni. Quello che vede in sogno sembra un cimitero, invece delle lapidi
ci sono dei tronchi neri su cui fiocca la neve, finché una marea avanza e lei
si sveglia. La richiesta dell’amica Inseon, in ospedale perché si è tranciata
due falangi lavorando il legno per il progetto del cimitero di tronchi che
avrebbero dovuto realizzare insieme, la porta a Jeju, l’isola nello stretto di
Corea. Inseon le ha chiesto qualcosa di strano a cui però Gyeong-ha non può
sottrarsi: deve andare a dare da bere al pappagallino che altrimenti morirà.
Inizia così il viaggio della protagonista, tra realtà, metafora, sogno, in una natura che è in apparenza pura e incontaminata, con la neve che cade in grossi fiocchi in un silenzio di ovatta. Che cosa si nasconde dietro questa apparenza? Il viaggio di Gyeong-ha per arrivare alla casa dell’amica è difficoltoso, dopo un percorso in autobus deve proseguire a piedi, perde la strada, cade lungo un pendio. Quando arriva alla casa trova il pappagallino morto, l’elettricità salta e lei rimane al buio e al freddo. Sono tutti segnali premonitori di quello che verrà a sapere, in parte raccontato da Inseon (come mai riappare accanto a lei? non era in ospedale? È un sogno? È morta e la visita sotto forma di spirito? Anche l’uccellino, che lei è sicura di avere sepolto, sembra tornare in vita) e in parte dalla madre di questa che aveva rivelato alla figlia il suo tremendo passato negli ultimi anni prima di morire e prima che la sua memoria fosse inghiottita dall’Alzheimer.
La madre e la zia erano sopravvissute al massacro in cui i loro genitori e un’altra sorella erano morti. E non avevano mai smesso di credere che anche il fratello potesse essere scampato, ne avevano seguito le tracce nelle varie prigioni da cui era passato, avevano ascoltato la testimonianza dell’uomo che lo aveva incontrato e che poi sarebbe diventato il padre di Inseon.
Queste testimonianze spezzate, questi
ricordi frammentari, gli esami delle fotografie a bassa risoluzione, i racconti
a volte ripetuti- sono la parte più bella del libro, come se si scrollassero di
dosso tutta la neve che è caduta su Jeju per rivelarsi, come se le cataste
impressionanti di ossa bianche trovate in una grotta volessero prendere la
parola e vincere lo smemoramento dell’Alzheimer, come se tutti quei bambini
uccisi- quanti bambini, anche neonati-, implumi come il pappagallino morto,
esigessero di avere nel ricordo la vita che non gli era stato concesso di
avere.
Non c’è fine agli orrori, nel passato e nel
presente.
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