Voci da mondi diversi. Africa
diaspora africana
Abdulrazak Gurnah, “Il disertore”
Ed.
Garzanti, trad. Laura Noulian, pagg. 302
“Desertion”, il titolo originale del
romanzo di Abdulrazak Gurnah pubblicato in italiano nel 2006 dalla Garzanti
(introvabile al momento, tranne che sugli scaffali della mia libreria dove a
volte i libri rimangono in attesa, conservati per anni perché giudicati degni
di attenzione). Il titolo italiano, “Il disertore”, trae in inganno perché
induce a pensare ad un uomo che abbia disertato da un esercito e leggiamo
cercando di indovinare l’identità di questo personaggio. Invece “Desertion” è
l’astratto ‘Abbandono’ e questo è un romanzo di abbandoni- di una o più donne,
di una terra, di una cultura, di una lingua. Ed è una storia che coinvolge più
personaggi, che ha conseguenze a distanza di tempo, che ‘parla di come ogni storia ne contenga molte altre e di come esse non
ci appartengano, bensì dipendano dalle correnti accidentali del nostro tempo,
parla di come queste storie ci intrappolino nel loro groviglio, catturandoci
per sempre.’
Tutto incomincia nel 1899, quando, in una cittadina dell’Africa orientale non lontana da Mombasa, il mercante Hassanali soccorre un inglese che stramazza ai suoi piedi, più morto che vivo. Martin Pearce era partito per una spedizione di caccia con altri europei, ma li aveva abbandonati, disgustato dalla carneficina. I due somali che avrebbero dovuto guidarlo nel deserto lo avevano derubato e abbandonato. Frederick Turner, uno degli unici due europei della piccola città, fa portare Pearce a casa sua e questi, quando ritorna per ringraziare Hassanali e la sua famiglia, vede Rehana, la donna che gli ha prestato le prime cure, e se ne innamora.
Il romanzo è diviso in tre parti ognuna
delle quali è divisa a sua volta in capitoli intitolati con il nome del
personaggio che è al centro della scena. Le tre parti si svolgono in luoghi
diversi e in tempi diversi, un’interruzione dopo la prima parte ci svela
l’identità dell’io narrante che, a differenza di quanto accadeva nei romanzi
della tradizione, non sa tutto e può solo immaginare certe scene. Sappiamo ben
poco della storia d’amore tra la donna africana (che era stata sposata e abbandonata dal primo marito) e l’uomo
inglese, ne sapremo di più in seguito, quando scopriremo i rapporti di
parentela degli altri personaggi di cui leggiamo- e siamo già negli anni ’50 del
‘900.
Quando, nella seconda parte, appaiono sulla scena i fratelli Amin e Rashid e la loro sorella Farida, non hanno nessun legame con Hassanali o Rehana. I genitori sono entrambi insegnanti che, per sposarsi, hanno lottato contro le convenzioni, spronano i figli allo studio, sono di larghe vedute. E tuttavia, quando divampa l’amore tra Amin e la bellissima Jamila, impongono al figlio di troncare la relazione. Sono troppe le cose contro Jamila. É divorziata, vive da sola. E poi sua nonna era stata l’amante di un inglese che poi l’aveva lasciata (un altro abbandono e ora capiamo quale sarà la connessione tra quello che abbiamo letto prima e la storia che leggiamo adesso e come la rovente passione tra Rehana e Martin si sia riverberata sui loro discendenti). Amin ubbidisce, ma questo nuovo abbandono sarà straziante per Amin che non si sposerà mai. Per Rashid, invece, l’abbandono sarà diverso, sarà il realizzarsi di un’ambizione che lo porterà a vincere una borsa di studio per frequentare l’università in Inghilterra, sarà l’abbandono della patria, delle radici, della lingua.
Ci deve essere il riflesso dell’esperienza
personale di Abdulrazak Gurnah in quella di Rashid, ragazzo nero in
un’Inghilterra bianca, piena di pregiudizi e di atteggiamenti discriminatori,
incapace di dimenticare il passato Impero. E la famiglia rimasta a Zanzibar,
pur vedendo il distacco del figlio con dolore, non può fare altro che raccomandargli
di non tornare, perché in patria troverebbe tumulti, fame e paura in un regime
dittatoriale.
Il romanzo è ricco di temi interessanti- la
distanza incolmabile tra colonizzatori e
indigeni, l’ambiguità dell’ammirazione per la cultura e il mondo occidentale
(compresa l’adozione della lingua dei colonizzatori), la posizione della donna
nella società musulmana, l’estraneità che viene fatta pesare agli immigrati di
colore, l’amore, infine, che non riesce a superare tutte le barriere. Tuttavia
restiamo un poco insoddisfatti dalla lettura, come se fossimo sempre in attesa
di una qualche rivelazione o approfondimento che invece non arriva. Ci affascina,
però, il leit-motiv del libro, il tema della ‘diserzione’, dell’abbandono che è
poi una forma di tradimento, una ferita che non si rimargina. E non si potrebbe
ampliare il significato del titolo, pensando che, in qualche maniera, è stato
un abbandono anche quello da parte dei colonizzatori, dopo aver spogliato i paesi
sotto il loro dominio?
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