martedì 31 marzo 2015

Kiran Desai, “Eredi della sconfitta” ed. 2007

                                                      Voci da mondi diversi. Asia
  il libro ritrovato


Kiran Desai, “Eredi della sconfitta”
Ed. Adelphi, trad. Giuseppina Oneto, pagg. 378, Euro 19,50

     E’ un libro molto amaro, “Eredi della sconfitta” della giovane scrittrice indiana Kiran Desai, figlia della famosa Anita Desai. Un’amarezza che traspare da un titolo che parla dell’eredità di una perdita, come se fosse inevitabile e predestinata, che permea tutte le pagine di questo romanzo che parla di perdenti, anche quelle che hanno dei risvolti buffi o ironici.
Sono gli anni ‘80, Indira Gandhi è stata assassinata da poco, c’è aria di tumulto in quell’area nord occidentale del Bengala che reclama un nome per sé, Gorkhaland, e l’indipendenza in quanto abitata da indiani nepalesi. Lì, quasi ai piedi del Kanchenjunga che svetta tra le nuvole con i suoi 8586 metri di altezza, vive l’anziano giudice Jemubhai Patel con Sai, la nipote sedicenne, e il cuoco che non ha neppure la dignità di un nome. Ce l’ha il figlio, però, l’amatissimo Biju che incarna tutte le speranze del padre e vive in America. L’America che, come appare chiaro in uno dei tanti esilaranti seppur penosi dialoghi del libro, non è la stessa cosa degli Stati Uniti: nell’immaginario degli emigranti è l’America, e non gli Stati Uniti, che è aureolata di dollari verdi, è in America che tutto è possibile, perché c’è posto per tutti e lavoro per tutti. Anche se chi è rimasto a casa non sa quali siano le condizioni di lavoro degli immigrati clandestini, disposti a tollerare qualunque cosa, le sedici ore di lavoro al giorno, il dormire per terra- e pagando lo spazio per stendersi-, il sentirsi disprezzati e ridotti a disprezzare se stessi. Con il sogno della green card. Tutto, pur di non essere rimandati indietro.

      E’ la parte più bella del libro, quella che intesse la storia del cuoco e di suo figlio e che ha il  punto culminante in una telefonata di Biju al padre. La linea è disturbata, uno urla ad una estremità e l’altro risponde gridando dall’altra, Biju in una cabina telefonica a New York e il cuoco all’unico telefono pubblico del paese, circondato da curiosi che partecipano della sua gioia infinita nel sentire la voce del figlio che ha chiamato solo per accertarsi che lui sia ancora vivo, che stia bene, perché ha sentito dei disordini a Kalimpong. E a loro due, perdenti quanto il giudice, o quanto altri personaggi del libro, viene affidato il messaggio finale, quasi una vittoria nella perdita, nell’abbraccio con cui si stringono- Biju che è tornato per ritrovare se stesso, che è stato derubato sulla strada del ritorno, figura miseranda in mutande e un’imprestata camicia da notte a fiori, e suo padre che è stato appena preso a ciabattate dal giudice che ha sfogato su di lui il dolore per la perdita del cane.

    A questa storia di emigrazione e di ritorno fa da contrappunto l’altra, del giudice Jemubhai che, prima dell’indipendenza dell’India, era riuscito ad andare a studiare a Cambridge. In un luogo diverso, mezzo secolo prima di Biju, Jemubhai aveva sperimentato la stessa emarginazione dietro le promesse del Raj. Gli indiani erano ammessi nelle università inglesi, potevano anche farcela ad ottenere un titolo di studio (la legge che stabiliva il numero di indiani nell’Amministrazione pubblica avrebbe permesso a Jemubhai di esercitare in India), ma mai, mai sarebbero stati uguali agli inglesi. Mai gli avrebbero lasciato dimenticare che il colore della loro pelle era diverso, che puzzavano di curry, che il loro era un accento bastardo. Quando Biju scende dall’aereo a Calcutta, sente che anche ogni cosa torna al proprio posto; quando Jemubhai era sbarcato, lo aveva colto il disgusto per le facce, gli odori, la vita che si era lasciato alle spalle e lo riafferrava. Persino per la moglie che aveva solo quattordici anni quando l’aveva sposata e di cui si era dimenticato. Il prezzo di un titolo di studio era stata per Jemubhai la perdita dell’identità.

      E poi c’è la sedicenne Sai, figlia di emigranti che non hanno fatto ritorno perché morti in un incidente, nipote di Jemubhai che, pur avvertendo che Sai è “l’unico miracolo” riservatogli dal destino, le preferisce la cagna Mutt il cui rapimento alla fine lo manda pateticamente e grottescamente fuori di testa. Sai fornisce l’aggancio con il filone storico-politico del romanzo, perché si innamora dell’insegnante di matematica, un nepalese che prende parte alla manifestazione per l’indipendenza, un altro perdente che non ha il coraggio di andare fino in fondo, né nel suo amore per Sai né in quello per il suo paese.

    “Eredi della sconfitta” è un romanzo estremamente maturo, colmo di vividi personaggi minori che contribuiscono a darci il quadro di un paese che non ha ancora smaltito l’influenza della dominazione britannica (dello scrittore non nominato Naipaul, riconoscibile dal titolo di un suo romanzo, si dice che “non si è liberato della nevrosi colonialista”), con un retaggio culturale misto e di difficile amalgama, ora aperto alle suggestioni e influenze di un altro tipo di colonialismo, di un’altra potenza. E il linguaggio della Desai ha una ricchezza senza ostentazioni, in una prosa che ogni tanto, con moderazione, sfiora la poesia. Kiran Desai ci ha regalato un romanzo a cui si continua a pensare, dopo averne terminato la lettura.

la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos




lunedì 30 marzo 2015

Manuel Vázquez Montalbán, “Galíndez” ed. 2015

                                            Voci da mondi diversi. Penisola iberica
                                                           cento sfumature di giallo
      FRESCO DI LETTURA


Manuel Vázquez Montalbán, “Galíndez”
Ed. Sellerio, trad. Hado Lyria, pagg. 577, Euro 16,00
Titolo originale: Galíndez

Non sono molto bravo ad esprimere i miei sentimenti per iscritto, invece Muriel sì che riusciva a dire facilmente quello che pensava e per questo ricorro a lei per spiegarle che ho capito il senso del suo sacrificio. Senza persone come Muriel tutti noialtri continueremmo a essere dei miserabili. C’è gente dotata per essere migliore degli altri.


    Ritorna, pubblicato da Sellerio, un libro importante che era scomparso dagli scaffali da anni: “Galíndez”, romanzo anomalo di Manuel Vázquez Montalbán, un’inchiesta senza l’investigatore Pepe Carvalho, sostituito da una ricercatrice americana che deve scrivere una tesi su “L’etica della Resistenza”, anche se, dietro Muriel Colbert dalla fiammeggiante capigliatura, c’è lo scrittore stesso. Per spiegare la scelta del soggetto, Manuel Vázquez Montalbán ha detto che, mentre con i romanzi con Pepe Carvalho voleva scrivere una commedia umana della transizione spagnola alla democrazia, con Galíndez ha voluto “scrivere il testamento della memoria storica dell’impegno politico”. In realtà, come il lettore si rende subito conto, “Galíndez” è un elogio della resistenza, della ribellione al potere stabilito. E, come tutte le ribellioni contro forze immani, è destinata a fallire. Ha fallito don Jesús Galíndez, il basco che pensava di essere protetto dalla sua carica di rappresentante del Partito nazionale basco in esilio negli USA, nonché dal suo titolo di professore presso la Columbia University e da quello di operatore della Lega per i diritti umani.
Fallirà anche Muriel Colbert che crede ingenuamente che i tempi siano cambiati, che oggi la gente non possa più scomparire senza lasciare tracce come è successo a Galíndez nel 1956, che avanza spavalda nelle fauci del mostro facilitandogli anche il compito con il suo seguire le istruzioni- non lasciar detto dove va (può danneggiare i suoi amici), non pagare con carta di credito (può mettere in pericolo i suoi amici, ricorda?). Temiamo che anche il suo ex innamorato che, contagiato dal suo idealismo, si mette sulle sue tracce, farà una brutta fine. Ma questa è un’altra storia non ancora raccontata.
     Jesús Galíndez fu visto per l’ultima volta alle 10 del 12 marzo 1956 a Manhattan, mentre entrava nella metropolitana della Quinta Strada. Risultò in seguito che era stato rapito e trasportato a Santo Domingo, dove fu torturato e poi ucciso dagli agenti del dittatore Rafael Trujillo. Per raccontarci la sua storia Manuel Vázquez Montalbán ci fa accompagnare da Muriel nella regione basca, nei luoghi dove era nato Galíndez, dove la ricercatrice parla con chi ha conosciuto la sua famiglia, e poi a Madrid: Galíndez combatté tra le fila repubblicane nella guerra civile spagnola per poi fuggire a Santo Domingo nel 1939. La ricerca di Muriel si alterna ad un racconto in terza e in prima persona, tra presente e passato.
Nel presente si mette in moto un meccanismo di intimidazione per fermare il lavoro di Muriel a cui fa da riscontro, nel passato, una sequela di avvenimenti ben più violenti per mettere a tacere quel ‘comunista’ di Galíndez che aveva osato denunciare la dittatura di Trujillo, accusarlo di tirannia personale, di nepotismo, di clientelismo, che aveva scritto una spietata disamina di un regime che solo in parvenza adottava metodi democratici mentre in realtà sopprimeva le libertà politiche usando l’esercito come forza di appoggio. Se un corpulento agente della Compagnia è il regista che manovra la trama che porterà al sequestro di Muriel, c’è tutta la lobby trujillista degli Stati Uniti dietro il rapimento di Galíndez: come fare a meno del forte supporto economico di Trujillo per la campagna elettorale di Eisenhower prima e di Nixon dopo? come difendersi dal comunismo avanzante senza il baluardo di Santo Domingo, senza Trujillo come sentinella dei Caraibi, un po’ sanguinosa, è vero, ma così efficiente?
La tortura inflitta a Galíndez è un anticipo di quella che subirà la candida Muriel, le testimonianze che Muriel raccoglie provengono da chi è stanco di tacere e sfida il destino, la narrativa in terza persona si diluisce in quello che a tratti è un vero e proprio monologo interiore, la tensione drammatica è fortissima. E la presenza di un Male dai lunghi tentacoli si allunga nella lista infinita delle morti connesse con l’assassinio di Galíndez, ad iniziare da quella del pilota dell’aereo che lo trasportò a Santo Domingo, e poi del dottore che lo drogò e della presunta amante e dell’ideatore del sequestro e altri, e altri, fino a quella dello stesso Trujillo.
      Un libro di non facile lettura ma importante. Un libro che ricompensa lo sforzo del lettore di mettere insieme tutte le fila del racconto.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


     





domenica 29 marzo 2015

Pearl S. Buck, “Questo indomito cuore” ed. 2015

                                        Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                                                                       premio Nobel
     FRESCO DI LETTURA


Pearl S. Buck, “Questo indomito cuore”
Ed. Sonzogno, trad. Laura Lepetit, pagg. 327, Euro 16,00
Titolo originale: This Proud Heart


   “Intendo avere tutto, dalla vita” disse Susan. “Non posso limitarmi, e in certo senso mutilarmi, come fai tu. Ho voluto avere dei figli. Vivere la vita generando vita, non passivamente accettandola come la pioggia…La vita è un pozzo profondo, da cui sgorga l’acqua…Tu non capisci…Povero Michael!”

      Di Pearl S. Buck, premio Nobel 1938, ricordavamo soprattutto “La buona terra”, che le valse il Pulitzer nel 1931, e gli altri romanzi di ambientazione cinese, frutto della sua esperienza di vita in Cina per oltre quarant’anni. “Questo indomito cuore”, terzo titolo della casa editrice Sonzogno nella nuova collana bittersweet diretta da Irene Bignardi che prevede romanzi ‘rosa’ intelligenti e classici, ci sorprende perché inaspettato e ci cattura immediatamente con una protagonista femminile che non conosce età e in cui possiamo rispecchiarci.
    Quello che affascina, nel corso della lettura, è che Susan Gaylord non è una donna, ma molte donne. E’ capace di cambiare, di spostare le mete dei suoi desideri e delle sue ambizioni. Quando la conosciamo, all’inizio del romanzo, Susan è giovanissima, vive con i genitori e la sorella in una piccola città americana. Sono i primi anni ‘30 del ‘900, il femminismo è ancora di là da venire anche se la prima guerra mondiale ha già portato dei cambiamenti nello stile di vita delle donne. Il primo obiettivo di una ragazza, però, continua ad essere il matrimonio. Quello di un uomo è di avere un buon lavoro che gli permetta di mantenere la famiglia- un uomo che si rispetti non lascia andare la moglie a lavorare, il posto della donna è a casa, a pulire, a cucinare, a badare ai figli. Aspettando il rientro serale del marito.
Susan si adegua. Sposa il ragazzo che conosce da quando erano bambini, la vediamo indaffarata nelle faccende domestiche in una routine giornaliera che la soddisfa solo perché lei vuole essere soddisfatta, perché ricaccia indietro il pensiero che, tutto sommato, suo marito ha ragione- lei vale più di lui, a lei riesce tutto bene-, perché soffoca il lieve fastidio che l’umiltà di lui le provoca. Nascono due bambini. Poi rispunta in lei una necessità interiore di altra creatività- perché è vero che Susan è straordinariamente dotata, le sue mani modellano la creta creando figure quasi a sua insaputa, diventerà una scultrice nel corso degli anni, passando dalla creta al marmo, dalle statue di piccola misura a quelle imponenti. In Susan nasce una nuova consapevolezza: lei vuole tutto. Perché mai non dovrebbe essere possibile? Susan non vuole rinunciare al marito e alla famiglia. Ne ha bisogno, sono parte di lei, sarebbe impoverita senza di loro. E se questo vuol dire rinunciare a ‘crescere’ come artista, lei è disposta a pagare il prezzo.
     Se questa è la Susan numero uno, la Susan numero due ne prende il posto, dopo un periodo di transizione che segue la morte del marito, quando Susan ‘prende il volo’, lascia l’America con figli e governante e diventa la single indipendente dedita al lavoro che anticipa la donna moderna.
E’ una fase che dura poco, perché Susan si innamora. Si innamora sul serio, head over heels si direbbe in inglese, perde la testa per un altro artista, Blake. E lo sposa. Un verso di Byron dice che per un uomo l’amore è parte della vita, per una donna è tutto. Il rapporto con il primo marito era tiepido, lasciava spazio per altro nella vita di Susan. L’amore per Blake la travolge, la sazia, la annulla, le fa dimenticare quel ‘tutto’ che diceva di volere dalla vita. Susan non tocca più lo scalpello. Ci sarà un brusco risveglio, quando Susan capisce che la donna innamorata di Blake non è lei, è stata plasmata da Blake proprio come una sua statua. Ed ecco la Susan numero tre, che prende le distanze dall’amore soffocante- distanze anche nello spazio, affittando un locale per sé in cui lavorare, la stanza tutta per sé di Virginia Woolf-, che diventa una grande artista mettendo a nudo la pochezza di Blake che non ammette rivali.

    Ci tocca nel profondo, il personaggio femminile di Pearl Buck, così moderno, così anticipatore dei tempi a venire. Perché alla fine Susan ha avuto tutto, sì, nella vita, ma non tutto insieme. La necessità del compromesso è qualcosa che tutte le donne si trovano a dover affrontare. 

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



venerdì 27 marzo 2015

Monica Kristensen, “Operazione Fritham” ed. 2015

                                                    vento del Nord
                                                    cento sfumature di giallo
      FRESCO DI LETTURA

Monica Kristensen, “Operazione Fritham”
Ed. Iperborea, trad. Maria Valeria D’Avino, pagg. 370, Euro 17,50
Titolo originale: Operasjon Fritham


  Perché non si era liberato di quel quadro? Non trovava un vero motivo, a parte che gli piaceva guardarlo. Aveva pensato confusamente che sarebbe stato un peccato distruggerlo prima che le circostanze non l’avessero obbligato a farlo. Il rivestimento d’oro era un altro paio di maniche. Per anni aveva fantasticato su quel tesoro nascosto: immaginava il momento in cui sarebbe tornato a prenderlo, l’avrebbe smontato per vendere l’oro e le pietre preziose separatamente. Avrebbe guadagnato bene.

     Pochi romanzi hanno per protagonista un paesaggio così spettacolare, così estremo, così memorabile, come i libri di Monica Kristensen. Le isole Svalbard, nel Mar Glaciale Artico tra la Norvegia e il Polo Nord, sono di nuovo, dopo il precedente “La leggenda del sesto uomo”, il personaggio muto al centro di “Operazione Fritham”.
Perché le isole Svalbard ebbero una enorme importanza strategica durante la seconda guerra mondiale, via di transito per trasporto di rifornimento, di armi e di uomini in Russia anche come conseguenza del fluido trattato internazionale del 1920 che riconosceva alla Norvegia la sovranità sulle isole, ma estendeva a tutti i firmatari del trattato il diritto di sfruttamento delle risorse minerarie. Dopo aver occupato la Norvegia nel 1940, i nazisti arrivarono anche nelle Svalbard. La loro presenza non era affatto gradita e, dopo tempi di incerte alleanze, dopo che la Russia si schierò contro la Germania, iniziò a serpeggiare un movimento di resistenza. L’Operazione Fritham che dà il titolo al romanzo fu un tentativo disperato e mal organizzato di riappropriarsi delle isole da parte di un gruppo di minatori norvegesi e due ufficiali inglesi a bordo di due minuscole imbarcazioni. Le navi furono avvistate e poi bombardate dagli aerei tedeschi, la rompighiaccio colò a picco in pochi minuti, la fochiera si incendiò prima di affondare. Quattordici uomini morirono subito, i superstiti furono spazzati dalle mitragliatrici. Fu un bagno di sangue. L’operazione era stata approvata da Londra: come mai, allora, era così palesemente destinata a fallire? Che scopo aveva in realtà? Ed era chiaro che qualcuno aveva tradito, che uno degli uomini a bordo era una spia e aveva segnalato la posizione delle navi. Chi? un norvegese? uno degli inglesi?

     Questo spicchio di Storia della seconda guerra mondiale nel Mar Artico (di per sé un tesoro contenuto nel libro) è intrecciato ad una trama più vasta che incomincia nel passato, nel marzo 1941, quando due ragazzi norvegesi disperati, affamati e delusi, disertori dell’esercito tedesco, ammazzano un pastore in una cappella isolata che contiene una preziosa icona russa, e si alterna con un presente di poco più di mezzo secolo dopo la fine della guerra, quando l’Associazione dei Veterani dell’Artico si raduna per un convegno nelle Svalbard. Tra i presenti c’è anche la figlia dell’ufficiale inglese morto nell’incendio della fochiera, ha con sé delle foto di un rullino che il padre aveva fatto spedire prima della catastrofe, aveva intenzione di distribuirle come ricordo alle persone ritratte. E se una foto rappresentasse un pericolo per qualcuno? Se svelasse un segreto rimasto tale per cinquant’anni?
Le storie che si srotolano nel romanzo, che si ingarbugliano, che si confondono, sono quella di un comune assassino che ad un certo punto continua ad uccidere perché è la maniera più facile per tirarsi fuori dalle difficoltà e poi, dopo la guerra, un morto in più o in meno, che differenza fa? e, insieme, quella di una fantomatica spia, o di un doppiogiochista dalle motivazioni altrettanto basse quanto quelle dell’assassino. A proposito, sono la stessa persona? Ed è la stessa persona anche il partigiano tanto ricercato dai nazisti? Tutti i misteri saranno risolti alla fine, dopo un’alternanza continua, serratissima, di passato e presente- colmo di suspense il passato, il presente ci fa trattenere il fiato. E, dietro, incombe lo Spitzberg, si estende un mare di ghiaccio e il sole di mezzanotte è implacabile quanto la lunga notte artica: anche il paesaggio, anche il clima, contengono una oscura minaccia.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


giovedì 26 marzo 2015

Anita Nair, “La ferocia del cuore” ed. 2012

                                                              Voci da mondi diversi. Asia
                                                              cento sfumature di giallo
       il libro ritrovato

Anita Nair, “La ferocia del cuore”
Ed. Guanda, trad. Francesca Diano, pagg. 384, Euro 18,00
Titolo originale: Cut Like Wound


      Anche il sergente Gajendra vi aveva fatto cenno. Solo che lui lo chiamava “il Super Senso Sakaath di Gowda”. “Lei e io, signore, abbiamo solo cinque sensi. Vediamo, odoriamo, tocchiamo, sentiamo, assaporiamo. Ma lui ha un senso king-size, che lo fa pensare diversamente. Quando il Super Senso Sakaath è all’opera, glielo si legge in faccia. Gli occhi diventano due pugnali, la mascella di granito…ha visto le pendici dei monti Kudremukh? Ecco, in quei momenti è così. E nella sua testa si può sentire il ticchettio di un orologio.”


      Bangalore, India. E’ sera. Un uomo si sta preparando per uscire. Un uomo che si veste da donna davanti ad uno specchio circondato da lampadine accese. Si trucca- fondotinta, kohl per far risaltare gli occhi, mascara, rossetto. Sceglie accuratamente che cosa indossare- biancheria intima, sari, corpetto che lascia scoperto l’ombelico con il piercing (un topazio luminoso). C’è una lentezza sensuale nella descrizione di questa scena, un certo autocompiacimento nell’abbigliarsi e rimirarsi che sottolineano come questo non sia un rito abitudinario. O meglio, come lo sia ma non sia però destinato agli occhi di tutti. E’ quasi un regalo che l’uomo fa a se stesso e, con il nuovo aspetto femminile, si dà anche un altro nome: adesso è Bhuvana.
     Con questo insolito personaggio ha inizio il romanzo “La ferocia del cuore” di Anita Nair  e ha inizio pure un genere nuovo per la scrittrice indiana, nota al pubblico femminile per il libro “Cuccette per signora” ma anche ad un numero più ampio di lettori con “Un uomo migliore”, “Padrona e amante”, “La mia magica India”. Perché la capacità di cambiare generi, di non ripetere le stesse storie, di affrontare il nuovo e il diverso, è quello che caratterizza i veri scrittori. Anita Nair inaugura il suo filone noir inoltrandosi in un ambiente ‘scabroso’- quello dei transgender e degli eunuchi che sono una presenza notevole in India, accettati con una certa naturalezza ma confinati ai margini della società, relegati a vivere insieme in ‘case Madri’ perché per lo più rifiutati dalle loro famiglie.

Il personaggio del travestito (con tutta la sua problematica personale che si svela a poco a poco, senza che il lettore riesca a indovinare ‘chi’ si celi dietro le moine e gli abiti femminili) è naturalmente al centro della trama di indagine poliziesca, perché è presto chiaro che è lui (o lei) a commettere la serie di delitti tutti eseguiti con la medesima modalità. Tuttavia il vero protagonista del romanzo è- come è logico aspettarsi- l’ispettore Borei Gowda. Vicino ai cinquant’anni, non perfettamente in forma fisicamente (tende a bere), con una moglie medico che ha deciso di trasferirsi nella cittadina dove il loro unico figlio frequenta l’università, Gowda è un mito tra i colleghi. Perché ha un fiuto speciale. Ha un intuito che lo porta a cogliere indizi dove altri non vedono nulla. Anche perché la polizia indiana è ben lontana da assomigliare a quella dei telefilm americani, è del tutto priva della strumentazione e delle tecniche che i telespettatori (e i criminali) hanno avuto modo di vedere e imparare nella serie CSI. Le indagini della polizia indiana fanno pensare piuttosto a quelle di cui abbiamo letto nei primi romanzi ‘gialli’ inglesi, quelli che hanno fatto scuola.  E Gowda, che ci piace per il suo sprezzo per le convenzioni e per la sua mancanza di servilismo, un poco distratto dal riapparire di una vecchia fiamma dei tempi dell’università, preoccupato per il figlio che sorprende in compagnia di un africano del circolo degli spacciatori, riesce a bloccare il serial killer. Il lettore si aspetti, però, delle sorprese nel finale. Si aspetti anche un gusto di amaro in bocca. E trepidazione per la sorte di un altro personaggio che ha imparato ad amare tanto quanto Gowda- il giovane doppio di Gowda che sembra un ideale figlio adottivo dell’ispettore, tanta è l’ammirazione che prova per lui.


     Durante il festival della letteratura di Mantova Anita Nair ci ha detto che ha intenzione di scrivere una serie con l’ispettore Borei Gowda come protagonista: possiamo chiudere il libro con la quasi certezza che nel prossimo romanzo troveremo le risposte alle domande in sospeso. E con la riflessione che, qualunque sia il genere di romanzo che scrive, un vero scrittore non ci delude.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it



martedì 24 marzo 2015

Kate Atkinson, “Aspettando buone notizie” ed. 2015

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                                  cento sfumature di giallo
       FRESCO DI LETTURA

Kate Atkinson, “Aspettando buone notizie”
Ed. Marsilio, trad. Ada Arduini, pagg. 374, Euro 18,50
Titolo originale: When Will There Be Good News?


   Avevano preso l’uomo un mese dopo i delitti. Era giovane, non aveva ancora vent’anni, si chiamava Andrew Decker ed era un apprendista disegnatore. Martina lo chiamava “l’uomo cattivo” e quando Joanna aveva una delle sue improvvise crisi isteriche, la abbracciava e le sussurrava nei capelli: “L’uomo cattivo è in prigione per sempre, tesoro”. Alla fine non era stato per sempre, solo trent’anni

   A sei anni l’infanzia di Joanna Mason era già finita. Quando uno sconosciuto aveva ucciso sua mamma, la sorellina maggiore e il fratellino di un anno, seduto sul passeggino. Lei aveva obbedito alla mamma che le aveva gridato, “Corri, corri, Joanna”, e si era nascosta nel campo di grano dove l’avevano trovata le squadre di ricerca.

    Quando la incontriamo, Joanna Mason è la dimostrazione di come si possa sopravvivere alla tragedia. E’ un medico, è sposata, ha un delizioso bambino di un anno, vive in una grande e bella casa con giardino. Soprattutto è una di quelle donne affabili, generose, capaci di vedere e gustare il bello, che conquistano la simpatia di chiunque. Certamente quella della ragazzina sedicenne che è la baby-sitter del piccolo Gabriel. Reggie Chase (il suo vero nome è Regina e il diminutivo maschile le creerà non pochi problemi) è da poco rimasta orfana di madre, non ha mai neppure conosciuto il padre morto in Iraq, suo fratello è un piccolo delinquente. Joanna la affascina, a Reggie piacciono l’ordine, la sicurezza, l’atmosfera di normalità che regnano in casa di Joanna Mason sposata Hunter. E non sa nulla del passato di Joanna, non sa che l’assassino della sua famiglia ha finito di scontare la pena ed è uscito di prigione. Lo sa benissimo invece l’ispettore Louise Monroe, da poco sposata con un medico ortopedico, che segue da vicino non solo il caso di Joanna ma anche quello di un’altra donna che è passata attraverso una vicenda di sangue simile a quella di Joanna- nel suo caso, però, l’assassino fuori di testa non è uno sconosciuto ma il marito.
   C’è un altro personaggio ancora di cui parlare, perché ha un ruolo chiave e poi perché è molto simpatico. Jackson Brodie è un ex poliziotto, ex militare, attualmente fa l’investigatore e sta investigando su se stesso, per così dire: si è avvicinato ai bambini dell’asilo ed ha strappato un capello ad uno di loro. Lui pensa che sia suo figlio, la madre del bambino lo nega. Lui farà ricorso all’esame del DNA.
     “Aspettando buone notizie” della scrittrice inglese Kate Atkinson si legge di un fiato. E’ uno di quei romanzi di cui si potrebbero elencare i difetti- primo di tutti un numero veramente alto di drammi per cui i protagonisti hanno perso un congiunto: il mondo dei personaggi di Kate Atkinson è un mondo pericoloso, a quanto pare; la trama, poi, è piena di coincidenze, incontri casuali, incidenti e fatti criminosi. Ma è tutto talmente piacevole! Kate Atkinson intreccia il filone del genere poliziesco, ricco di suspense, con quello del romanzo di sentimento e di approfondimento psicologico. Siamo in ansia per Joanna e il suo bambino che scompaiono (sono stati rapiti? sono fuggiti per mettersi in salvo? fino a che punto c’entra il marito di Joanna?), abbiamo paura per Reggie, perseguitata e aggredita da giovinastri che in realtà cercano suo fratello, ci chiediamo se si riesca veramente a superare un trauma così grave come quello che ha vissuto Joanna, se ce la farà ad avere una vita equilibrata la tenera Reggie che vede in Joanna un’amica e una madre sostituta, partecipiamo alle frenetiche ricerche della polizia e di Jackson Brodie che è scampato ad un disastro ferroviario e viene ‘ingaggiato’ da Reggie per trovare Joanna e il bambino. E poi restiamo anche coinvolti nelle vite personali di ognuno di loro, nei dubbi sulle loro scelte dei compagni di vita.


    C’è un altro piacere aggiunto alla lettura di Kate Atkinson, la ricchezza di riferimenti letterari nascosti tra le righe che offrono un’altra dimensione, un approfondimento del romanzo- a Daphne Du Maurier e al romanzo “Rebecca, la prima moglie”, ma anche al poeta scozzese Robert Burns (“Una rossa rosa rossa”), a William Blake (“La rosa ammalata”) e a Henry James (“La coppa d’oro” e “Il giro di vite”). Leggiamo un nome, c’è il richiamo di un verso, ed è come una spolverata di spezie su un romanzo che è, in definitiva, un romanzo sulla perdita. Perdita della famiglia, di persone amate, dell’innocenza, della fiducia, dell’amore. E su come ricostruirsi dopo una perdita.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


Anita Nair, L’arte di dimenticare ed. 2010

                                                           Voci da mondi diversi. Asia
          il libro ritrovato


Anita Nair, L’arte di dimenticare
Ed. Guanda, trad. Francesca Diano, pagg. 367, Euro 18,00

Bangalore, India. Giri e Mira vanno ad un ricevimento, insieme al figlio tredicenne. Giri si allontana senza salutare. Scompare. Quando si fa vivo, chiede il divorzio. A Mira resta il carico di provvedere ai due figli, nonché alla madre e alla nonna che vivono con lei. Accetta di lavorare come segretaria del climatologo professor Krishnamurthy, tornato in India dall’America perché sua figlia è stata vittima di un incidente: la diciannovenne Smriti giace in coma. E’ l’incontro tra due persone che hanno sofferto e devono ricominciare una nuova vita.



INTERVISTA ad Anita Nair, autrice de L’arte di dimenticare

     Non resta più nulla sul terreno su cui è passato un ciclone. Il ciclone, accennato in brevi pagine di un fittizio testo scientifico che ne spiega l’evolversi e ripreso nella professione stessa di uno dei due protagonisti, è la metafora impiegata dalla scrittrice indiana Anita Nair per gli eventi drammatici di diversa natura che portano distruzione nella vita di una persona, spazzando via il passato e tutto quanto si è costruito in una frazione di secondo, sollevando nel suo turbine anche il futuro che ci si immaginava di avere davanti, lasciando dietro di sé il nulla.
    I due personaggi centrali del romanzo L’arte di dimenticare si trovano in una situazione del genere anche se, in una scala oggettiva di gravità, la tragedia personale del professor Krishnamurthy- Jak, come viene chiamato in America, o Kitcha, come lo chiama ancora chi li ho ha conosciuto da bambino- è di gran lunga peggiore di quella di Mira. Mira, una piacente donna sulla quarantina, deve affrontare un inaspettato divorzio. Kitcha non riesce a capacitarsi che sua figlia giaccia immobile in un letto, muta tranne per l’urlo che le esce di bocca quando non vede il padre. Prima di poter ricostruire, dopo il passaggio di un ciclone, bisogna liberare il terreno dai detriti. Sia Mira sia Kitcha si guardano indietro, cercano di capire se ci fossero dei segni premonitori, in quale maniera abbiano sbagliato, che cosa avrebbero potuto fare di diverso.
     I capitoli in cui è l’uno o l’altra ad essere al centro della scena si alternano, prima di confluire in un’unica narrazione che li riguarda entrambi. La prospettiva si amplia, dunque, perché Mira è la donna che, per quanto moderna, ha sempre vissuto secondo le tradizioni indiane, mentre Kitcha si è trasferito in America, è un ‘indiano non residente’ , un indiano di ritorno, a cavallo tra due mondi e due culture.
C’è un detto tamil che ben esprime la norma di comportamento delle donne indiane: ‘Sia duro come un sasso o inutile come un’erbaccia, un marito è un marito, ti piaccia o non ti piaccia’.
E Mira non ha mai neppure pensato che il suo matrimonio potesse finire: si è adeguata a quello che il marito voleva da lei, si è trasformata nella perfetta moglie aziendale che lui desiderava. Così perfetta da trarne l’idea per un libro di suggerimenti che le ha dato una certa notorietà. Ma come deve comportarsi ora che è tornata ad essere una donna sola, con due figli e due donne anziane a carico, per di più? Come gestire i corteggiamenti degli uomini che approfittano del fatto che non ha più un marito accanto? Come trovare un lavoro dignitoso che le permetta di vivere nella grande e antica casa lilla che apparteneva alla sua famiglia? Una casa che è di per sé un personaggio nel libro, che rappresenta il fascino ‘demodé’ della tradizione, di tutto ciò che è antico, malandato per l’uso ma di valore proprio per quello. E’ significativo che l’arrivista marito di Mira si innamori della casa insieme a lei, e che poi voglia sbarazzarsi della casa, prima di abbandonare Mira.
     I rovelli interiori del professore Krishnamurthy nascono nella stanza in cui giace sua figlia. Ritornando indietro nel tempo, si chiede se lui e la moglie non abbiano sottovalutato il dolore arrecato alla figlia dalla loro separazione, se non abbia sbagliato a concedere a Smriti di frequentare l’università in India invece che negli Stati Uniti.
Chi era Smriti, in realtà? Per lui era la sua bambina, un po’ ribelle e caparbia. Per i giovani che Smriti ha frequentato in India, era una ragazza dai liberi costumi. Che cosa poteva aspettarsi in India una ragazza che andava in giro con tutta quella pelle scoperta e quei piercing? Eppure dietro al suo aspetto provocante, c’era una ragazza capace di dare tutta se stessa ad una causa giusta- è questo il tema scottante del romanzo, che ci sarebbe piaciuto fosse più sviluppato, lo scandalo taciuto degli aborti illegali quando il sesso del nascituro è femminile.
      Il romanzo di Anita Nair inizia con scene tipiche del romanzo rosa, con un ricevimento sul bordo di una piscina, chiacchiere leggere, spuntini e calici di vino. Il ciclone non è ancora arrivato, ma ‘la ciclogenesi di una bufera tropicale raramente si annuncia’. La furia dell’uragano coincide con le pagine più drammatiche- quelle sulla clinica degli aborti clandestini e sulla sorte di Smriti, la ragazza che osa indagare. E allora, usando ancora un’immagine del testo sui cicloni, quella dei cirri che nascondono l’occhio del ciclone, comprendiamo che niente è mai come appare, che c’è sempre una realtà nascosta negli uomini e nelle cose.
Stilos ha intervistato Anita Nair, presente al Salone del Libro di Torino.


Nel romanzo Lei usa la metafora del ciclone, ne fa persino il lavoro di uno dei due personaggi principali ed usa un testo scientifico fittizio per seguire lo sviluppo delle sue fasi. E’ stato, in qualche maniera, lo tsunami del 2004 a darle lo spunto?
     No: sono cresciuta a Madras, dove ogni anno c’era un ciclone e l’effetto che provoca è del tutto imprevedibile. Così avviene per la vita delle persone che può essere sconvolta indipendentemente da loro. Volevo mostrare che cosa provoca un ciclone nella vita delle persone che non fanno nulla per attirarselo. E poi come si possa vivere ugualmente dopo un ciclone: è qualcosa che ci prende di sorpresa, ma poi ognuno reagisce e va avanti.

Le tre donne del romanzo, Mira, Saro e Lily, sono tutte dei bei personaggi. Tutte e tre si rivelano essere delle donne forti. Immagino che Lei abbia creato Mira per prima: perché affiancarla con la madre e la nonna?
   Non so…avevo bisogno di un contesto per Mira, per mostrare quale tipo di educazione avesse ricevuto, in quale ambiente fosse cresciuta. E poi, nonostante tutto quello che le succede, ha ancora una nonna e una madre: forse non è felice, ma questo è importante per lei, avere un sostegno. Penso che, invecchiando, è importante avere una compagnia femminile, perché solo le donne possono dare un certo tipo di sostegno.

C’è un solo personaggio femminile che mi è parso negativo, quello di Nina, la madre di Smriti. E’ il suo essere cresciuta in un altro mondo, in America, che la rende così senza cuore?
    No, non penso che l’atteggiamento di Nina abbia a che fare con gli Stati Uniti dove è cresciuta. Di recente ho notato che ci sono molte donne che, dopo il divorzio, non hanno chiesto di tenere i figli con sé. Ho ben tre esempi di madri che non hanno voluto i figli. Come è possibile? Forse non vogliono più essere associate con la vita che si sono lasciate alle spalle, ma mi riesce difficile capirlo. Nina è così.

 Sia Mira sia Kitcha cambiano sotto i colpi della vita, direi che diventano migliori. L’effetto delle disgrazie è o di migliorare o di affondare le persone?
     C’è un detto famoso, ‘quello che non ti uccide ti rende più forte’. Sia Mira sia Kitcha sono usciti da una catastrofe, eppure sopravvivono, o almeno, tentano di sopravvivere. Questa è la chiave di lettura del romanzo: dobbiamo imparare che tutto passa. Una catastrofe può azzoppare una persona, ma io non volevo restassero degli storpi. Sia Mira sia Kitcha sono devastati da quanto è successo, ma riescono entrambi a fare il passo seguente. Si domandano, ‘che cosa facciamo?’, e agiscono. Molta gente si arresta e  non si pone neppure la domanda di che cosa si possa fare per reagire. La vita non finisce: è questa la lezione importante.


Qual è il ruolo dei genitori? Fino a che punto sono responsabili di quello che accade ai figli? Kitcha, ad esempio, è tormentato dall’idea che quanto è successo a Smriti sia colpa sua…
     Ho un figlio di 18 anni, e penso che sia diverso se si ha un figlio o una figlia, perchè la violenza fisica è molto peggio nel caso di una ragazza. Eppure sono sempre in ansia per lui, quando esce la sera non sono tranquilla finché non è tornato. Ma è importante dare fiducia ai figli, solo così loro possono restituirci la stessa fiducia. Se li controlli, si ribellano. So che è facile dirlo, ma non si smette mai di essere genitori, qualunque sia l’età dei figli. La responsabilità che ha un genitore è per sempre.

Quello che accade a Smriti è dovuto anche ad una frattura enorme tra l’educazione tradizionale e quella moderna. La tragedia avviene quando si incontrano persone che hanno avuto educazioni diverse, o diverse culture si scontrano. E’ l’incapacità di comprendere gli altri la causa di tutto?
     Sì, penso di sì. Se cresci in India, cresci imparando come affrontare una situazione, come vestirti, come cavalcare entrambi i mondi. E’ difficile imparare ad adattarsi per qualcuno che viene da un altro paese.
    
Il matrimonio e le donne: nel romanzo ci sono parecchie storie di matrimoni e la maggior parte sono storie infelici, sia nel presente sia nel passato. L’unica differenza è forse che in passato le donne accettavano tutto in silenzio? E quanto comune era, in passato, il comportamento della zia di Kitcha, che si ribella al marito?
      Non era affatto comune, era una cosa molto insolita. E tuttavia conosco molti casi di donne che hanno avuto il coraggio di prendere la loro vita nelle loro mani. Molte donne si rassegnano accettando molte cose per insicurezza, pensando di non avere altre scelte. Invece si può sempre fare una scelta.

Un argomento molto importante è quello di cui si tratta verso la fine del romanzo- l’aborto dei feti di sesso femminile e la mafia che gestisce gli aborti clandestini. Accade ancora adesso, nel secondo millennio?

      Sì, proprio una settimana fa è uscito un articolo dal titolo, Le figlie che abbiamo ucciso. Sì, anche oggi ogni giorno vengono uccise 2000 bambine. Avere una figlia femmina è sentito come un peso, ancora ai nostri tempi, sembra impossibile. La mia segretaria mi raccontava di qualcuno che conosce e che aspetta il terzo figlio. Questa donna vuole abortire se le diranno che sarà una bambina. E no, non è che ha già due bambine e non ne vuole una terza. Ha due maschietti e, se fosse un terzo maschietto, andrebbe bene. Ma non va bene se è una bambina. E parliamo di Bangalore, non dell’India rurale. E’ anche per questo che ho creato tre personaggi femminili. E’ importante: le donne devono imparare a sopravvivere anche prima di nascere.


recensione e intervista sono state pubblicate dalla rivista Stilos



                                                                         

domenica 22 marzo 2015

Katja Petrowskaja, “Forse Esther” ed. 2014

                                                      Voci da mondi diversi. Area germanica
                                                                        FRESCO DI LETTURA

Katja Petrowskaja, “Forse Esther”
Ed. Adelphi, trad. Ada Vigliani, pagg. 237, Euro 18,00
Titolo originale: Vielleicht Esther


    Una delle grandi sinagoghe di Kiev ospitò nel dopoguerra un teatro delle marionette, di proprietà statale. Una delle marionettiste era Dina Proniševa, che il 29 settembre 1941 era riuscita a salvarsi dalla forra e, successivamente, si presentò come testimone in molti processi. L’ultimo capitolo di questa metamorfosi è, ai miei occhi, un teatro di marionette in una sinagoga dove lavora una sopravvissuta di Babij Jar.


    Katja Petrowskaja: un cognome decisamente russo che ha cancellato  lo Stern che denunciava la matrice ebraica della famiglia, quando il bisnonno aveva lasciato la Polonia per Kiev. Stern come ‘stella’, e la mente corre alla stella gialla che i nazisti obbligarono gli ebrei a cucirsi bene in vista, sulla giacca o sulla manica. Stern come si chiamava il fratello del bisnonno di cui la scrittrice seguirà le tracce, il Judas Stern che aveva attentato alla vita dell’ambasciatore tedesco nel 1932 a Mosca. Si chiamava poi Judas o Jehuda? E’ tutto avvolto nella nebbia dell’incertezza il ricordo del passato di cui Katja Petrowskaja cerca di rimettere insieme i pezzi: era proprio Esther il nome della bisnonna a cui i tedeschi avevano sparato prima che lei riuscisse ad arrivare a Babij Jar dove a tutti gli ebrei era stato ordinato di andare?
In casa ci si rivolgeva sempre a lei come a babuška, chissà. Che scena penosa e simbolica di sottomissione, quella della fine di ‘forse Esther’, come la raccontava un vicino che aveva visto dalla finestra. Il portinaio non ne avrebbe denunciato la presenza nello stabile- era così vecchia, non riusciva neppure a camminare. Ma no, agli ordini si obbedisce, ‘forse Esther’ era scesa lentamente in strada, non sapeva la direzione, si era rivolta gentilmente a due ufficiali tedeschi per avere indicazioni. Che seccatura, che voleva quella vecchia? Uno sparo indifferente l’aveva tolta di mezzo. Va annoverata ugualmente tra le 33.771 vittime del 29 e 30 settembre 1941? Altre centomila se ne aggiunsero nei due anni seguenti. Si calcola che il totale arrivi ai 200.000, se si calcolano anche i 300 prigionieri di guerra a cui furono fatti riesumare i corpi per bruciarli e che poi, testimoni scomodi, furono messi a tacere per sempre.

     Se Babij Jar- con il percorso davanti ai dieci memoriali da poco eretti, con i versi di Evtušenko che reclamano la non alterità di quei morti, Ogni vecchio ucciso qui/ io. Ogni bambino ucciso qui/ io- è il centro focale delle memorie di Katja Petrowskaja, nata a Kiev e da sempre consapevole di quanto avvenuto nelle forre nei pressi della sua città, le altre tessere del puzzle ricompongono la storia della sua famiglia, singolare perché erano stati tutti insegnanti in scuole speciali per sordomuti, come se la propensione all’insegnamento- e di un tipo così speciale- facesse parte del patrimonio genetico famigliare. Non è facile per la scrittrice seguire le tracce dei suoi parenti a quasi settant’anni dalla fine della guerra. Si possono consultare tutti gli archivi, adesso, ma ugualmente, tante carte sono andate perse, dei nomi sono cambiati negli spostamenti tra Polonia, Russia, Germania, Austria, nei ghetti, nei campi, nei gulag. Poi, inaspettatamente, Katja Petrowskaja ritrova una parente in Tennessee, ha perfino scritto un libro, la sua memoria è ottima, la donna la mette sulle tracce di altri cugini di cui lei non sapeva nulla. E’ come l’affiorare di nuove isole dopo un’eruzione sottomarina che ha sconvolto il paesaggio conosciuto.
    C’è poi da affrontare il mistero del nonno che si pensava morto e che è ricomparso quarant’anni dopo la fine della guerra. Perché? Perché era tornato a Kiev ma non si era fatto vedere dalla nonna Rosa? Bisogna andare a Mauthausen per cercare di capire. Vedere le ombre spettrali che avanzano nella marcia della morte. Come aveva potuto sopravvivere il nonno? Che cosa gli era successo?


    Sembra che il baule della memoria trabocchi, nel libro “Forse Esther” di Katja Petrowskaja. Sembra che si debba pigiare i ricordi che ci sono dentro, per farcene stare degli altri, per trovare spazio per fotografie ingiallite di volti e di strade. E poi, malgrado gli sforzi, o forse, per fortuna nonostante gli sforzi, le ombre di chi non c’è più escono fuori, parlano, prendono vita, non vogliono essere dimenticate. Come la signora biancovestita, bianco calzata, con i capelli bianchi quasi contornati da un’aureola di luce, che appare a Katja Petrowskaja di fronte alla casa che doveva essere stata della sua famiglia. Forse Esther.