fresco di lettura
Luciana Capretti, “Tevere”
Ed. Marsilio, pagg. 220, Euro
17,50
1975. Roma. Piove. Fa freddo. Una donna
esce di casa, ha indosso solo una sottile camicia da notte e un finto
pellicciotto. Prende un taxi, si fa portare in una strada dove vede suo marito
incontrare l’amante. Sconvolta, scende lungo viale Trastevere finché arriva al
fiume. Un’altra donna, una brasiliana che sta lanciando nell’acqua delle rose
bianche per adempiere un sorta di magico rito, la vede esitare. Della donna col
pellicciotto, Clara Faiola, verranno trovati solo i documenti, stranamente
asciutti. Del corpo, nessuna traccia.
Rimase lì, sull’orlo, a lungo. Forse il
tempo di un’ora o di una sera o di una notte. Di certo aveva smesso di piovere
da parecchio perché si era asciugata con il vento freddo e completamente
intirizzita quando sentì la sua voce bisbigliarle Via, devi andare via. Allora
si mosse, fece pochi passi sui lastroni grigi verso l’argine, aprì la borsetta,
prese le Nazionali il borsellino e la carta di identità e si chinò per posarli
con cura all’inizio delle scale che scendevano in acqua. L’acqua era nera e
maestosa.
Luciana Capretti ci racconta una storia
vera intrecciata alla finzione in questo suo secondo romanzo “Tevere”, proprio
come nel precedente “Ghibli” la trama era un miscuglio di invenzione narrativa
e di vera storia della sua famiglia, espulsa dalla Libia. E mi colpiscono i due
titoli che hanno qualcosa di simile, aria e acqua, il vento del deserto e il
fiume di Roma che travolgono il destino dei personaggi. Al posto della
scansione temporale di date che c’era in “Ghibli”, tre colori distinguono tempi
diversi- significativi, memorabili. Giallo, bianco, nero. Oppure nell’ordine
inverso, con il bianco sempre nel mezzo, il bianco che è tutti i colori per
rappresentare la breve vita felice di coppia di Clara e il marito, il bianco
come le lenzuola dei letti d’ospedale, come il camice di dottori e infermiere
per l’entrare e uscire di Clara da ospedali e case di cura, dopo i diversi
tentativi di suicidio (uno addirittura con la bimba appena nata in braccio),
per curare la depressione con la terapia tremenda dell’elettroshock, più
devastante ancora della malattia.
Giallo è il colore dell’enigma, del filone di
indagine e di ricerca della donna scomparsa, della trama con il commissario di
polizia che si intestardisce nel voler capire che ne sia stato di Clara, perché
sia arrivata al punto di disperazione da voler abbandonare tutto, soprattutto
quei figli che tanto amava e che la ricambiavano con uguale affetto. Nero è il
passato, la giovinezza di Clara a Novara. Nero perché segnato da una tragedia-
la morte di una sorella, nero perché offuscato dalla grave e debilitante
depressione della madre, e poi nero perché erano gli anni del fascio e il padre
di Clara era un fascista convinto, orgoglioso di indossare la camicia nera. E
Clara si era iscritta al partito, era diventata un’ausiliaria. E sui giornali
dell’epoca c’è la traccia da seguire, di quello che è successo e di cui Clara
non ha mai parlato a nessuno dopo essere arrivata a Roma, lasciandosi tutto
alle spalle, la madre inferma, la sorella minore che l’ha accusata di essere
una spia, il padre condannato per crimini di guerra. E lei, Clara, che cosa era
successo a Clara?
E’ un libro forte e crudele, “Tevere”. Un
libro che fa soffrire. E’ un’esplorazione dell’animo femminile, un viaggio nel
buio della depressione- non quella causata da uno scompenso chimico ma da un
male profondo. Quella lasciata da cicatrici che il tempo non può guarire. Anzi,
il tempo le manda in suppurazione, ne aggiunge altre dovute all’incomprensione,
alle cure sbagliate che aggiungono violenza a violenza già subita. Perché di
questo si tratta, in fin dei conti. Violenza, anche se solo psicologica, del
padre su una figlia. Violenza carnale quando la donna è una prigioniera di
guerra e a lei, solo a lei e non a qualunque uomo che possa aver combattuto
schierato al suo fianco, viene inflitto un oltraggio privato solo perché donna. E’ abbastanza per far ritrarre
una donna da tutti gli uomini, anche se amati.
Per principio mi rifiuto di festeggiare le ricorrenze che ci sono state
imposte- festa della mamma, della donna, del papà, degli innamorati, dei nonni
e chi più ne ha più ne metta-, ma avrei parlato volentieri di questo libro,
della storia di Clara, nel giorno delle donne. Come forma di protesta, per
ricordare che sarebbe meglio denunciare ogni forma di violenza invece di
spogliare gli alberi di mimosa.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
la scrittrice Luciana Capretti
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