il libro ritrovato
Luciana Capretti, “Ghibli”
Ed. Rizzoli, pagg. 205, Euro
14,50
Il 2 luglio 1970 due leggi
decretavano l’espulsione dei 20.000 italiani residenti in Libia; tre mesi dopo
il colonnello Gheddafi annunciava trionfalmente che 12.770 italiani erano
partiti, in più erano stati confiscati 37.000 ettari di
terra e 80 milioni di sterline libiche erano stati congelati sui conti bancari.
Erano rimaste 1500 persone, tutti tecnici o esperti che “servivano” al regime.
Su quei mesi drammatici è costruito il libro di Luciana Capretti, “Ghibli”, che
mescola la storia della sua famiglia a invenzione narrativa. Sono sette
capitoli che coprono un arco temporale di undici mesi, anche se non sono in
ordine cronologico: il primo e l’ultimo portano la data “agosto 1970”, quando tutto
è compiuto, e le prime parole, “Mahmud c’era riuscito”, stabiliscono già chi
sono i vincitori e chi i vinti. Un nome arabo, Mahmud: è riuscito a farsi
attribuire il negozio di oreficeria di Santo Attardi, a Tripoli. Lo stesso
Santo Attardi che vediamo, nella pagina seguente, arrivare a Ostia, in costume
da bagno e canottiera, così come era fuggito su un’imbarcazione. Indietro nel
tempo, ad aprile, e poi maggio e giugno e luglio, con un balzo all’anno
precedente, il 1969 quando Gheddafi aveva preso il potere, segnando la fine di
re Idris e della convivenza pacifica. Mesi di timori e di speranze, in cui si
prepara la fuga, in cui basta un pretesto per venire arrestati, in cui si
sceglie e si scarta, quello che si può portare via e quello che si deve lasciare,
quello che si può nascondere in sottofondi di armadi, cucire negli abiti,
infilare in tubetti di medicine- i soliti espedienti di tutti i disperati
costretti a far fagotto abbandonando i frutti del lavoro di una vita. Non c’è
sentimentalismo nel racconto di Luciana Capretti, non si nasconde la realtà del
fatto che gli italiani erano arrivati da conquistatori nel 1938, alla ricerca
di un posto al sole.
Erano dei poveracci in realtà, reclutati nelle campagne, i
più fedeli al fascio. Gli avevano detto che avrebbero avuto da lavorare, ma che
la loro era una missione. Appena sbarcati erano stati ricevuti da Balbo,
salutati dalle fanfare. Avevano avuto quello che gli era stato promesso, i
poderi, i sussidi, i quintali di farina per far subito il pane. Che poi i
poderi appartenessero ai libici e che questi fossero stati deportati nel
deserto, che fossero stati uccisi, non importava a nessuno. Mors tua, vita mea. I ricordi di Santo
Attardi si mescolano a quelli di altri personaggi, la povertà in Sicilia, la
vita in una patria che non offriva speranze e
il capitolo nuovo che si era aperto a Tripoli. Era stata dura, ma ne era
valsa la pena. Non viene espresso un giudizio in queste pagine, ma il quadro è
ben chiaro: la vita era dolce per gli italiani a Tripoli, è vero che avevano
dato e insegnato tanto ai libici, ma restavano pur sempre i conquistatori,
quelli che, per la maggior parte, non avevano neppure imparato l’arabo. E poi
la fuga- chi a nuoto fino ad una nave, chi
nascosto nella custodia di un violoncello, chi su un motoscafo, perdendo
la bussola, restando a secco di benzina, scampando per miracolo. E il libro si
chiude con un’ultima beffa, una sorpresa per quel Mahmud che pensava di
avercela fatta, mentre soffia il ghibli, indorando l’aria, spazzando via il passato,
seccando le lacrime, riempiendo la bocca di sabbia, soffocando le parole per il
rimpianto.
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