Casa Nostra. Qui Italia
seconda guerra mondiale
love story
INTERVISTA A Nini Wiedemann, autrice di “Al di là delle frontiere”
Ed. Tropea, pagg. 217, Euro 15,00
Ha due sottotitoli, il romanzo
“Al di là delle frontiere” di Nini Wiedemann di cui abbiamo visto di recente
l’adattamento cinematografico in televisione con l’interpretazione di Sabrina
Ferilli: “Una storia d’amore e di guerra” e “Una storia vera”. E così questa
storia, che avrebbe gli elementi per essere un romantico feuilleton, acquista tutto un altro significato e un altro valore,
come storia d’amore che supera le barriere, quelle geografiche di due paesi,
Italia e Germania, prima alleati e poi nemici, quelle delle incomprensioni
degli altri, quelle delle difficoltà oggettive e logistiche. Per concludersi
bene- e se non fosse “una storia vera”, come dimostra anche il cognome tedesco
della scrittrice, non potremmo perdonare un finale così rosa da sembrare
impossibile. Il nome da ragazza di Nini Wiedemann è Angela Ghiglino e abitava
con la famiglia a Pietra Ligure quando incontrò il capitano Hans Wiedemann, del
comando tedesco di Albenga. Era già il quarto anno di guerra, dopo l’8
settembre gli uomini di casa si erano rifugiati sulle montagne e ad Angela,
sospettata di aiutarli, era arrivato un mandato d’arresto da parte del federale
di Savona. Si era salvata accettando il lavoro che degli amici le avevano
procurato, come interprete del capitano Wiedemann.

La cosa più difficile, per
Angela, è dissociare l’immagine del tedesco, che è il nemico, da quella
dell’uomo sensibile, gentile e colto che si trova a combattere una guerra di
cui ha orrore e vergogna. In un racconto in terza persona che cerca di evitare
le trappole dell’emozione, Nini Wiedemann ricorda le tappe dell’attrazione e
poi dell’amore che diventa per entrambi una difesa contro lo scempio della
guerra- gli inglesi bombardano Pietra Ligure, Hans Wiedemann riceve l’ordine di
recarsi a Montecassino e Angela lo segue. Lo seguirà anche nella ritirata lungo
la penisola, difesa con rozza tenerezza dall’attendente siberiano di Hans, su
fino al Veneto, dove i tedeschi minano la laguna per fermare l’avanzata degli
alleati. E sarà qui che il ruolo di Angela acquisterà un’importanza nazionale,
ma Hans non è il debole che agisce per amore di una donna. Hans è l’uomo che ha
il coraggio di riconoscere il valore della disobbedienza a cui niente nella sua
formazione lo ha preparato, che c’è la libertà di disobbedire a un ordine
assurdo e folle. Firmerà la resa, dando
l’ordine di liberare i campi minati e consegnandosi prigioniero insieme a i
suoi uomini. Stilos ha incontrato la signora Wiedemann a Pietra Ligure, dove
vive di nuovo da una quindicina di anni, per parlare con lei della sua
straordinaria storia d’amore durante la guerra.
Sono passati 60 anni dai fatti che Lei racconta, come mai viene
pubblicato solo ora il libro sulla sua storia?
Perché sono stata in
Germania per quarant’anni, avevo iniziato a scrivere il libro in tedesco, poi
ho capito che non andava bene: parlo il tedesco, ma non ho mai studiato la
grammatica e ho deciso che il libro doveva essere scritto in italiano. L’idea
di scrivere il libro mi era venuta perché volevo lasciare a mio figlio un
ricordo, volevo che sapesse che cosa suo padre ed io avevamo fatto. Mio marito
Hans Wiedemann è morto in un incidente d’auto nel 1964 e io sono tornata a vivere
in Italia alla fine degli anni ‘80. Ho scritto il libro e lo feci pubblicare in
poche copie, per mio figlio e degli amici, dalla Loggia dei Lanzi di Firenze.
E’ stato il conte Vianelli, di cui parlo nel libro e con cui sono rimasta in
contatto, che ne ha parlato con un giornalista del Gazzettino di Venezia e da
lì si è messo in moto tutto quanto: sono stata contattata da un giornalista di
Roma, sono stata intervistata in televisione per la ricorrenza del 25 aprile
del 1998, e poi c’è stato il film e ora l’edizione del libro pubblicato da
Tropea.
Lei ha dei ricordi molto precisi di quegli anni: ha fatto delle
ricerche per controllare le date e gli avvenimenti degli anni di guerra?
Sì, i fatti li
conoscevo, però ho fatto ricerche sui libri di storia, sono stata aiutata da un
professore di storia di Ceriale e anche il generale La Penta di Torino mi ha
fornito informazioni e date sulla guerra. Ho anche telefonato al sindaco di
Cavarzere, dove mio marito aveva firmato la resa, per avere la copia di quel
documento, e sono stata invitata a Chioggia dove ero già stata ospite del
vescovo per un mese dopo la liberazione, quando mio marito è partito per la
prigionia e per me era troppo pericoloso ritornare in Liguria senza una scorta.
Perché ha scelto di raccontare la sua storia in terza persona?
Perché mi pareva di
autoglorificarmi, se avessi scritto in prima persona. Non volevo adularmi.
Parlavo di fatti che forse mi facevano onore e per modestia preferivo parlare
in terza persona: non è nella mia natura mettermi in mostra e io sono rimasta
quella di sempre.
Non si parla mai della Liguria degli anni di guerra, soprattutto della
Liguria di Ponente. Eppure so che sono stati tempi durissimi, che non c’era
niente da mangiare.
E’ vero che sono stati
tempi durissimi e che non c’era niente da mangiare. Noi eravamo una famiglia di
gioiellieri e avevamo la possibilità di portare dell’oro ai contadini in cambio
di qualcosa da mangiare, ma c’era proprio poco. Si faceva la fame, neanche con
i buoni si riusciva ad avere qualcosa. E bisognava cercare di far arrivare del
cibo anche ai partigiani sulle montagne, mio fratello, mio cugino, dei nostri
amici erano con i partigiani. E abbiamo anche subito dei bombardamenti: Pietra
Ligure è stata distrutta dal bombardamento di cui parlo nel libro. Infatti le
riprese del film sono state girate in Romagna, perché qui c’è troppo cemento,
tutto è stato ricostruito.
Che cosa è stato più difficile per lei? La lotta interna per accettare
questo amore o farlo accettare agli altri?
Entrambe le cose hanno
suscitato contrasti fortissimi in me. Per tradizione il tedesco era il nemico.
Quando ero bambina, mia nonna mi diceva: “ se non stai buona chiamo i
prussiani.” Non amavo i tedeschi. Poi, nel viaggio in treno da Roma verso casa
dopo l’8 di settembre, ho visto sparare a un ragazzo, ho assistito alla
violenza dei tedeschi. Ho combattuto questo amore, e anche mia madre mi diceva,
“è impossibile, non puoi amare un tedesco”. Io provavo rancore nei suoi
confronti, neppure io sarei voluta andare a lavorare come interprete al comando
tedesco, ma l’alternativa era finire nelle prigioni politiche di Savona. Eppure
mi sono innamorata. Perché Hans era un uomo magnanimo, generoso, neutrale, non
aveva niente contro il popolo italiano. Quando l’ho conosciuto bene, mi sono
resa conto che era un uomo meraviglioso, con dei valori che non credevo i
tedeschi potessero avere. Quello che all’inizio era un sentimento di attrazione
si è trasformato in un grande amore. Però c’erano gli altri: non venivo accettata,
vedevo il disgusto, l’ira negli occhi degli altri. Quando le case venivano
requisite e io entravo sorridendo e cercando un contatto con loro, loro
giravano la testa dall’altra parte. Ne ho sofferto molto e ho cercato in tutti
i modi di aiutarli perché capissero che non li avevo mai traditi. Non potevo
sopportare questo disprezzo, io non avevo mai tradito. Sì, mi ero salvata e mi
ero innamorata, ma non avevo mai tradito la mia gente.
L’hanno capita nella sua famiglia?
Mia madre non voleva neppure che facessi
l’interprete. “Allora vado in prigione”, le ho detto. Ma quando sono venuti i
fascisti per arrestarmi, è stata lei stessa a mostrare il documento in cui
risultava che lavoravo per il comando tedesco. Da allora piano piano ha capito.
Io ho nascosto a mia madre il mio amore per Hans, ma lei se n’è accorta. Era
mia madre e sapeva leggere le mie espressioni- mi ha detto, “ti sei
innamorata”, e io ho risposto, “sì”, non potevo mentire. Ha pianto e mi ha detto, “capisco il tuo amore, ma per
noi è inaccettabile. Lo capisco e sei mia figlia.” Anche per lei è stata una
tremenda lotta interiore. Temevo che mia sorella e mio fratello non mi
avrebbero più voluto vedere, e per un po’ è stato così. Mia sorella era incinta
e io ho detto a Hans che volevo esserle d’aiuto e portarle da mangiare: Hans ha
organizzato tutto lui, anche se per lui era rischiosissimo. Ha fatto riempire
un camioncino, guidava il suo attendente russo, abbiamo detto che andavamo a
procurarci frutta e verdura dai contadini nell’entroterra e poi abbiamo
lasciato dai contadini i viveri per i partigiani.

Ci saranno stati molti momenti in cui ha avuto paura, quali sono stati
i peggiori?
Ho sempre avuto paura,
ma volevo stare con Hans: se moriva lui al fronte, morivo anch’io. Il momento
peggiore è stato quando gli inglesi hanno attaccato durante la pausa, vicino
alla casamatta- io ero fuori che mangiavo una mela acerba, avevo fame. Vicino a
me c’era il tenente Schmidt che è stato sventrato. Io sono stata ferita da una
scheggia ma ero ricoperta dalle budella del tenente e sono svenuta, più che per
il male, per la paura e per lo shock di quel momento.
Ho trovato molto bello il personaggio del russo Ivan che le faceva da
scorta.
Era un uomo speciale, un
burbero buono. Era un siberiano mastodontico, sembrava un orso che ringhiava,
ma aveva un cuore d’oro, aveva la dolcezza negli occhi. Anche quando gridava e
io gli dicevo, “ma perché fa così, Ivan?”, i suoi occhi ridevano. Gli alleati
non hanno rispettato gli accordi presi con mio marito, e i russi del suo
battaglione, compreso Ivan, sono stati consegnati a Stalin- saranno morti
tutti.
E dopo? So che è un’altra storia, ma che cosa è successo dopo?
Si intitola proprio così
il libro che sto finendo in questi giorni: “E dopo…e dopo”. Dirò solo che dopo
continua la mia ricerca di Hans che è stato mandato in un campo di prigionia ad
Alessandria d’Egitto, è stato liberato quasi subito ed è andato a Francoforte,
ma non poteva muoversi di lì. Ci siamo rincontrati nel 1946.
L'intervista e la recensione sono state fatte nel 2004 e sono state pubblicate sulla rivista letteraria "Stilos".Le fotografie sono tratte dal film