sabato 27 settembre 2025

V.V. Ganeshananthan. “Miei fratelli perduti” ed. 2025

                                                    Voci da mondi diversi. Sri Lanka

                                               guerra civile in Sri Lanka  



V.V. Ganeshananthan. “Miei fratelli perduti”

Ed. Neri Pozza, trad. Luig M. Sponzilli, pagg. 384, Euro 19,00

 

     Jaffna. Sri Lanka. 1981.

Ho conosciuto il mio primo terrorista quando stavo decidendo di diventarlo anch’io.

   È questa la frase di apertura di questo romanzo tragico e bellissimo, storia di una famiglia, storia di una guerra civile che durò 25 anni, Storia di un intero paese.

   L’io narrante è Sashi, sedici anni da compiere, quattro fratelli di cui tre più grandi, un’ammirazione sconfinata per il fratello maggiore che studia medicina (come già il nonno), un inizio di amore per K., l’amico dei fratelli che, proprio all’inizio, interviene prontamente per lenire il dolore di una scottatura che Sashi si è procurata versandosi addosso accidentalmente dell’acqua bollente, il sogno che sta per realizzarsi di studiare anche lei medicina, come il fratello, come K.

   Sono pagine spensierate, le prime del romanzo. Parlano di amicizie, di libri letti e condivisi, di studi in biblioteca, di amore fraterno, di un padre che è spesso lontano da casa per lavoro, di una madre che prepara i piatti preferiti dei figli, di successo e insuccesso negli esami, di sogni per il futuro.


Poi…il ‘luglio nero’ del 1983 segna l’inizio della guerra civile tra singalesi e tamil, una guerra che non risparmierà nessuno, che spezzerà le famiglie, che causerà lutti e dolore. Il fratello maggiore di Sashi è il primo a morire, il suo corpo non verrà mai restituito. Altri due fratelli si uniranno alle Tigri in una spirale di violenza da ambo le parti, il fratello minore è contrario al movimento, anche perché si macchia di crimini tanto quanto i soldati del governo di Colombo. E Sashi, che ha iniziato gli studi di medicina con due insegnanti carismatici, non sa resistere alla richiesta di K. di prestare aiuto nell’ospedale da campo delle Tigri, curando ‘terroristi’ (quanto è inadeguata questa parola- terroristi o ribelli o partigiani?) e civili. La situazione sembra peggiorare ancora quando intervengono le forze ‘di pace’ indiane.


    L’apice di questa storia di persone e di un paese viene raggiunto quando K. si offre (o viene scelto?) per uno sciopero della fame e chiede a Sashi di assisterlo. Vedere chi si ama morire lentamente senza poter intervenire, perché questi così ha chiesto, è straziante. A che è servito poi? Forse solo ad incoraggiare Sashi a scrivere, insieme alla dottoressa che è diventata sua amica, dei rapporti che documentano quanto è accaduto e sta accadendo, perché il mondo sappia la verità, scomoda per tutti, soprattutto per le Tigri. E allora la vita stessa di Sashi è in pericolo. Dopo che due figli sono già morti per la causa, dopo che un terzo ha abbracciato ideali estremi ed è come perso per la famiglia, sua madre non può perderne altri- accetteranno Sashi e il fratello minore di fuggire all’estero mettendosi in salvo?


   La narrativa di “Miei fratelli perduti” ha un tono diretto, realista, e il romanzo è una perfetta combinazione di Storia vera e finzione. E’ un libro duro, dolorosamente terribile, impossibile interromperne la lettura se non per lasciar sedimentare i sentimenti che ha causato in noi lettori. Indimenticabile.

    “Miei fratelli perduti” (Brotherless Night) ha vinto il Premio per la Narrativa Femminile del 2024 (Women’s Prize for Fiction).



mercoledì 24 settembre 2025

Cristian Perfumo, “I delitti del ghiacciaio” ed. 2025

                                                        Voci da mondi diversi. Argentina

cento sfumature di giallo

Cristian Perfumo, “I delitti del ghiacciaio”

Trad. Silvia Rogai, pagg. 435, Euro 17,99 (edizione kindle 3,99)

 

     Patagonia, estremo sud dell’America Latina. Una delle escursioni preferite dai turisti è andare, a bordo di un catamarano, in vista del ghiacciaio Viedma. Uno spettacolo grandioso, mozzafiato. Una parete alta 50 metri, una massa di ghiaccio abbagliante che si estende per 70 km.

I movimenti di un ghiacciaio sono imprevedibili e, durante una di queste escursioni, dopo che un lastrone di ghiaccio è caduto in mare, appare una macchia scura nel biancore accecante. Un corpo umano, imprigionato in una gelida tomba.

Si vedrà poi che i cadaveri sono due, che uno dei due è morto con un proiettile nel ventre e l’altro per un trauma cranico. La loro morte risale a trent’anni prima- chi erano?


    Cambio di scena. Barcellona. Il giovane Juliàn riceve un’eredità inattesa. Il fratello di suo padre, che lui non ha mai conosciuto, gli ha lasciato un terreno a Le Chaltén, in Patagonia. Suo padre non vuole parlare di questo fratello con cui ha litigato e troncato ogni rapporto. E Juliàn parte per la Patagonia e…sorpresa: non ha ereditato solo del terreno che ha acquistato valore negli anni, ma anche un albergo costruito su quel terreno, chiuso da trent’anni. Non è finita. Con l’albergo ha ereditato anche il cadavere quasi mummificato di un uomo sdraiato su un letto in una delle stanze. Anche questo sconosciuto è stato assassinato, anche lui, come gli altri due prigionieri del ghiaccio, porta un anello a forma di testa di lupo con l’incisione, all’interno, della frase “Lupus occidere vivendo debet”.


     Il romanzo dello scrittore argentino Cristian Perfumo, il primo che ha per protagonista la criminalista Laura Badía, è un thriller incalzante che lascia con il fiato in sospeso, che, con il suo duplice filone, ci trasporta dall’ Argentina alla Spagna, mentre la trama si sdoppia tra presente e passato, rivelando segreti che smentiscono le nostre supposizioni, che ci sorprendono. La trama è, nello stesso tempo, semplice e complessa. La semplicità è nella banalità di un male sempre attuale, la complessità è nelle conseguenze che il male scatena, coinvolgendo più persone oltre a chi è stato direttamente la vittima.

monte Fitz Roy

    E poi lo stile di Cristian Perfumo è estremamente piacevole- i dialoghi sono ricchi di humour, i personaggi sono vividi, infine i paesaggi, be’, i paesaggi sono di una bellezza spettacolare. Per nostra fortuna Google ci offre le immagini che non possiamo fare a meno di cercare e che corrispondono a quelle che le descrizioni dell’autore ci hanno fatto balenare.

    Un ottimo thriller.



 

martedì 23 settembre 2025

Chimamanda Ngozi Adichie, “L’inventario dei sogni” ed. 2025

                                                             Voci da mondi diversi. Nigeria



Chimamanda Ngozi Adichie, “L’inventario dei sogni”

Ed. Einaudi, trad. Giulia Boringhieri, pagg. 495, Euro 22,00

 

Nigeria.                   

Chiamaka, Zikora, Omelogor, Kadiatou.

Quattro donne. Quattro figure femminili esplorano il loro essere donna in una realtà che, tuttavia, ruota ancora intorno all’uomo, lo vogliano o no.

    Il nuovo libro di Chimamanda Ngozi Adichie non è un romanzo, se per romanzo intendiamo una narrativa che segue le vicende dei personaggi dall’inizio alla fine. Non c’è una sola storia e neppure una protagonista principale, perché non lo è neppure Chiamaka che ha due sezioni a lei dedicate, in apertura e in chiusura.

Ognuna delle donne è la protagonista di una parte a lei intitolata, ma tre di loro sono amiche, anzi Omelogor è cugina di Chiamaka, e tutte appaiono, più o meno marginalmente, in ogni parte.

Sono tutte e tre ricche e colte, non più giovanissime, sono donne in carriera. Solo Kadiatou non appartiene al loro mondo. È cresciuta in un villaggio ed è emigrata in America con la speranza di offrire una vita migliore alla figlia, ha fatto vari lavori, parrucchiera specializzata a fare le treccine, donna delle pulizie in un albergo, domestica e cuoca in casa di Chiamaka.


   Chiamaka, la prima delle tre amiche che conosciamo, è bellissima, viziata dal padre, viaggiatrice che scrive reportage vivaci e leggeri dei luoghi che visita, di una intelligenza curiosa. È lei, scrittrice di viaggi, che ci conduce nel viaggio della vita, sua e delle altre quattro, e lo conclude alla fine. È a lei che dobbiamo il titolo “L’inventario dei sogni” perché, chiusa in casa durante il lock-down dovuto alla pandemia del Covid, ricorda gli uomini di cui è stata innamorata, facendo quasi un inventario- di uomini e di sogni, di quello che aveva sperato, del futuro immaginato. Delle sue speranze. Ricorda gli incontri, l’innamoramento, l’entusiasmo, le delusioni. Uomini diversi, dal diverso colore della pelle, conosciuti in paesi diversi. Tutte storie finite, anche quella che sembrava essere con l’uomo giusto, anche quando era arrivata alla vigilia delle nozze.

   Il matrimonio e i figli- queste rimangono le questioni aperte di queste donne che sembrano vivere al limite tra modernità e tradizione. Sono donne spregiudicate e moderne che sentono però il peso della cultura in cui sono cresciute, che non cessa di ricordare loro che l’orologio biologico ticchetta inesorabilmente, che forse- come una zia suggerisce a Omelogor- sarebbe bene pensare almeno ad adottare un bambino, perché- che senso ha la vita altrimenti?


   Omelogor, un master in pornografia, un blog di consigli per gli uomini, ha trovato come dare un senso alla sua vita, al di fuori del matrimonio. Come maga della finanza nigeriana ha accesso a molto denaro e decide di seguire l’esempio di Robin Hood. Lei, però, non ruba ai ricchi per dare ai poveri, ruba ai ricchi per aiutare le donne a diventare piccole imprenditrici.

   Solo Zikora diventa madre, quando non ci sperava più. Nella vergogna che prova ad essere una madre single, però, riaffiora il peso di quella cultura che accetta la maternità solo in una coppia sposata.

   La storia di Kadiatou si differenzia dalle altre ed è lei il personaggio che amiamo di più, forse perché la sentiamo indifesa in un mondo di squali. Vittima di aggressione sessuale da parte di una persona molto in vista, un ‘intoccabile’ cliente dell’albergo, Kadiatou è sconvolta, divisa tra la preoccupazione di perdere il lavoro, la vergogna e la volontà di denunciare la violenza subita.

Siamo in America- le dicono tutti- il colpevole sarà punito, ci sono le prove. Eppure, anche se siamo nella terra della libertà, quante calunnie, quanti fraintendimenti voluti, quante distorsioni della verità, per salvare un ‘intoccabile’. Chi è lei che osa accusarlo? Solo una povera negra bugiarda immigrata dalla Guinea.


   Avevo aspettato con ansia di leggere il nuovo libro di Chimamanda Ngozi Adichie perché avevo amato i suoi romanzi precedenti. Mi ha deluso. Lo sfondo nigeriano delle storie e dei personaggi, che si muovono tra Lagos e gli Stati Uniti, salva delle vicende piuttosto banali, e perfino lo stile brillante della scrittrice non riesce a farci evitare la noia che a tratti proviamo durante la lettura.



domenica 21 settembre 2025

Anne-Laure Bondoux, “Attraverseremo le bufere” ed. 2025

                                                  Voci da mondi diversi. Francia

      saga

Anne-Laure Bondoux, “Attraverseremo le bufere”

Ed e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 496, Euro 19,50

 

    Una fattoria nel Morvan, nel Nord della Francia.

    Una famiglia in cui tutti gli uomini hanno il nome di un albero. Perché, che cosa è un albero, quali idee richiama alla nostra mente? Radici profonde, simbolo di vita e della famiglia, con quei rami che protende verso il cielo, nell’ambizione di un futuro migliore.

     C’è un vecchio padre che non si muoverà mai dalla fattoria, mentre il suo primogenito parte per quella che sarà chiamata la Grande Guerra da cui tornerà ferito nel corpo e nell’anima. Era sposato da poco, Anzème, quando era partito, al suo ritorno aveva trovato un figlio e però il fratello minore non c’era più- si era arruolato, gli avevano detto, e di lui non si era più saputo nulla. La madre, però, scompariva ogni giorno nel bosco- che segreto nascondevano gli alberi del bosco? Un segreto che inizia una scia di violenza che farà sì che, alla fine, l’ultimo dei Balaguère, Olivier, scrivendo il libro che dedica al figlio, si domandi se anche la propensione alla violenza si tramandi nel sangue, come fosse una sorta di gene ereditario. Perché la violenza è l’anello che congiunge una generazione all’altra, può essere un atto accidentale, come il colpo di fucile sparato da un bambino che danneggerà non solo il padre ferito al ginocchio ma anche suo figlio Aloe che cresce con il peso di un peccato non suo e disprezzato da suo padre, per di più.


   Se la guerra del nonno era stata quella del ‘14-‘18 e quella di suo padre la seconda guerra mondiale, quella di Aloe è forse ancora peggio perché viene mandato (lui che ci vede poco e che ama studiare e leggere) a combattere in Algeria, in una guerra che non approva, anzi, in una guerra in cui lui simpatizza con il nemico. Non è facile per Aloe riconoscere e accettare che l’amicizia che lo lega al suo insegnante non è solo amicizia come aveva pensato perché la sua casa era diventata per lui un rifugio e i libri che leggevano e commentavano insieme erano un’ancora di salvezza nello squallore della vita alla fattoria. E, tuttavia, Aloe si sposa, per convenienza, per mettere a tacere le male lingue, perché, tutto sommato, torna comodo anche alla sua sposa. Verrà il momento in cui, però, Aloe decide di dare una svolta alla sua vita, lascia la fattoria, fa ‘coming out’ a Parigi e poi riapparirà nella vita del figlio Olivier che racconta tutto questo e altro, altro ancora, al figlio Saule, perché poi tutto termina nella fattoria dove tutto era iniziato.


     In un romanzo che copre la storia di quattro generazioni in quasi un secolo c’è di tutto, le due guerre mondiali e la guerra di Algeria, il muro di Berlino e Chernobyl, le canzoni delle varie epoche e la nuova sconvolgente malattia che pare colpisca solo gli omosessuali, la nuova legge sull’aborto…solo leggendo lo scorrere del tempo in un romanzo ci si rende conto di quanti cambiamenti si siano susseguiti, di quante novità siamo stati spettatori inconsapevoli dell’importanza di quello che stava succedendo.

Il rovescio della medaglia di un romanzo fiume è la mancanza di spessore dei personaggi. Leggiamo quello che fanno, quello che gli capita, quello da cui vengono travolti, ci appassioniamo alle loro vicende, li vediamo resistere a tutte le bufere, ma non afferriamo mai veramente la loro interiorità. E tuttavia questa è una bella saga, un bel libro non impegnativo da leggere in vacanza.



venerdì 19 settembre 2025

Cesare Pavese, “La casa in collina”

                                                                    OFF THE MAIN ROAD

                                                        Casa Nostra. Qui Italia



Cesare Pavese, “La casa in collina”

Ed. crescere, pagg. 160, Euro 4,66

La mia è una vecchia edizione Einaudi, Lire 9500

   Che idea ci dà questo titolo del romanzo (uno dei più belli) di Cesare Pavese? Una casa, un luogo sicuro. In collina, su un’altura, c’è un certo distacco dal mondo, si vede tutto dall’alto, ci si sente al sicuro dai pericoli.

   É proprio così. La casa in collina offre un rifugio a Corrado, insegnante a Torino, ospitato da due donne di cui una è un poco innamorata di lui (senza speranza). Di notte Torino viene spesso bombardata e alla sera Corrado, e tanti altri come lui, prende la via della collina. E’ il 1943, l’anno in cui la guerra ha una svolta, l’anno in cui si devono prendere delle decisioni, per la Repubblica o per la Resistenza. E Corrado, ormai sulla quarantina, non prende nessuna decisione. Anzi, si tira indietro, si nasconde. Dapprima, nella grande confusione del dopo armistizio, è uno dei tanti che parlano all’osteria, che ostentano cinismo, che forse sperano sia tutto finito. Ma i bombardamenti continuano e anche i rastrellamenti, anche le azioni punitive dei tedeschi che arrestano e deportano, insieme ad altri, anche Cate, la giovane donna che Corrado ha rincontrato per caso al paese e di cui era stato innamorato un tempo. Adesso Cate ha un figlio, Dino- c’è lui dietro la vergogna che prova Corrado per come aveva lasciato Cate? Fa il conto degli anni e dei mesi, potrebbe essere suo figlio, Dino? E comunque Corrado gli si affeziona, cerca di fargli lezione. Cate, però, come anche Dino più tardi, quando scapperà per unirsi ai partigiani, rappresenta l’antitesi di Corrado. Lui è pavido, non prende posizione, lei non ha dubbi, si schiera con chi combatte i repubblichini. Lui si nasconderà in un convento, di lei non si saprà più nulla, morirà in un campo di concentramento.


     La casa in collina diventa più che mai la metafora di un isolamento, di un allontanamento dalla vita e dalle decisioni che questa comporta e il romanzo è la storia di un uomo che si è tirato indietro, sia nella vita privata- e lo spiare una qualche somiglianza con Dino per sapere se è suo figlio è il prezzo da pagare- sia in quella politica, dove il vedere lucidamente come una guerra civile stia prendendo piede non è per lui una spinta per agire e non solo per parlare.

     “La casa in collina” fu pubblicato per la prima volta nel 1948, due anni prima che lo scrittore si suicidasse, ed è un libro della sua piena maturità stilistica- c’è un nitore, una essenzialità nelle frasi semplici che hanno spesso un che di poetico. Rileggerlo ora, apprezzandolo forse ancora più di quando lo leggemmo per la prima volta, è quasi rinfrescante, è un piacere, ci fa pensare che sì, la grande letteratura esiste, che le parole sono un’ispirazione che nutre l’animo.




mercoledì 17 settembre 2025

Aki Shimazaki, “Una campanella silenziosa” ed. 2025

                                            Voci da mondi diversi. Giappone



Aki Shimazaki, “Una campanella silenziosa”

Ed. Feltrinelli, trad. Cinzia Poli, pagg. 544, Euro 20,90

    Ha una sua cifra stilistica, Aki Shimazaki, che la rende immediatamente riconoscibile, che fa sì che i suoi romanzi non possano essere confusi con quelli di nessun altro scrittore giapponese. C’è un rincorrersi di immagini fiorite, nei suoi libri, la scelta di fiori, o alberi, o perfino insetti, che diventano una sorta di leit-motiv, che, per il significato nascosto che racchiudono, finiscono per identificarsi con un personaggio, si fanno metafora per questo.

     La famiglia Nire è la protagonista della nuova pentalogia di Aki Shimazaki- questa è un’altra peculiarità della scrittrice, dividere il suo racconto in cinque libri in ognuno dei quali il fuoco dell’attenzione è su un personaggio.

Nire è l’olmo, un albero. Un albero dà l’idea di solidità, dà l’idea di famiglia, con i rami che si protendono a promettere una nuova stagione.


Padre, madre, due figlie un figlio. Padre e madre vivono in una casa di riposo perché lei, Fujiko, ha il morbo di Azheimer. Le due figlie sono diversissime tra di loro- Kyoko, che è nata il primo di maggio, il giorno del mughetto, la campanella bianca che è il simbolo ricorrente nel libro, è molto bella, passa da un uomo all’altro, vive a Tokyo e lavora presso un’azienda americana; Anzu è una ceramista famosa per le sue creazioni squisite di vasi per l’ikebana, è divorziata con un figlio; Nobuki, il figlio ‘imprevisto’ arrivato tardi, non ha seguito l’usanza giapponese di vivere con la sua famiglia in casa dei genitori  prendendosene cura, è un ingegnere e abita poco lontano.

     Le vicende della famiglia potrebbero essere banali, potrebbero rasentare il feuilleton se non fossero ‘salvate’ dalla delicatezza di Aki Shimazaki, dalla maniera in cui inserisce ogni pezzo del puzzle per completare l’insieme, per svelare segreti che resterebbero nascosti se non fosse per quella strana maniera di funzionare del cervello umano che funge da filtro quando è colpito da malattia, come se la verità fosse, alla fin fine, la cosa più importante.

monte Daisen

   Fujiko (il suo nome significa ‘figlia del Fuji’) è convinta che il monte Daisen che vede ora, da Yonago dove vivono, sia ancora il Fuji della sua infanzia, non riconosce più né marito né figli, anzi, pensa che il marito sia il suo fidanzato e torna a dargli del ‘lei’ e non vuole più dormire con lui accanto. Ricorda però una sua vecchia amica, ricorda un famoso direttore d’orchestra a cui insiste di dovere restituire dei soldi. Perché? prima di perdersi nel passato, aveva detto al figlio che si sarebbe separata dal marito, che non poteva più vivere con lui. Quali segreti, quali sofferenze nasconde il loro matrimonio?

    E poi c’è Kyoko, la figlia del mughetto. Attenzione, il mughetto sembra candido e innocente, eppure può anche essere velenoso. Anche la bella Kyoko è così. Senza che la sorella Anzu lo sapesse, Kyoko le ha fatto del male, perché Kyoko sembra incapace di amare.


   Ogni personaggio, in ogni generazione (sono quattro i giovani Nire figli dell’uno e delle altre), si svela a poco a poco. Le storie si intrecciano, tra passato e presente, la vecchia cultura del ‘miai’ (l’incontro formale in cui si valutava la possibilità di un matrimonio fra un ragazzo e una ragazza che non si conoscevano) è sostituita dal ‘goukon’ (appuntamento di gruppo organizzato per fare nuove conoscenze), tradimenti, divorzi, amori gay- una volta impensabili o tenuti nascosti- ora vengono accettati. Ed è straordinario come la lieve smemoratezza di Fujiko, il suo aver mollato l’ancora della realtà, il suo ritorno al passato senza alcun senso di colpa, -‘era una notte di luna piena’, dice come unica giustificazione-, dia l’avvio ad una rivisitazione del presente, dei legami famigliari, con una nuova accettazione di sé.

    Abbiamo più volte sottolineato lo stile minimalista della scrittura di Aki Shimazaki, in perfetta armonia con il contenuto dei suoi libri. Posso paragonarlo solo ai dipinti tratteggiati con punta fine che ammiriamo sui pannelli giapponesi.



lunedì 15 settembre 2025

Simona Baldelli, “Alfonsina e la strada” ed. 2021

                                                                 Casa Nostra. Qui Italia

           biografia romanzata

Simona Baldelli, “Alfonsina e la strada”

Ed. Sellerio, pagg. 320, Euro 16,15

 

   Alfonsina Strada, Alfonsina e la strada. Era il cognome del marito, ma nomen omen, quanto le si addiceva quel cognome che parlava di strade su cui lei correva sulle due ruote della bicicletta, di una strada che si allungava davanti a lei fino ad un orizzonte che travalicava quello delle pareti domestiche, che lasciava intravvedere una fuga da Fossamarcia dove era cresciuta in una famiglia ricca solo di figli, che segnava un percorso che altre donne avrebbero potuto seguire. Perché Alfonsina era, per molti versi, in anticipo sui suoi tempi- era nata nel 1891, l’800 non era un secolo che correva veloce, i cambiamenti avevano il passo lento, figurarsi come poteva venire accolta una donna in pantaloncini e capelli corti sul sellino di una bicicletta. Con insulti, per lo più, con parole offensive di cui la più gentile era ‘matta’.


    La bicicletta era arrivata per caso nella famiglia di Alfonsina. Era stato un regalo perché era poco più di un rottame, ma il padre si illudeva di trovare lavoro più facilmente potendo spostarsi con la bicicletta. Per Alfonsina, poco più che bambina, era stato amore a prima vista. Per lei, nonostante la giovane età, rappresentava la libertà e, per quella strana alchimia che porta un artista a maneggiare istintivamente i pennelli o uno strumento musicale, Alfonsina si dimostrò subito capace di riparare la vecchia bici come in seguito sarà capace di intervenire personalmente durante le gare (all’epoca si faceva così) per cucire pneumatici e assestare copertoni.

    Era tutta in salita la strada di Alfonsina Strada, doveva strappare il permesso di gareggiare con gli uomini- l’unico che credeva in lei era il marito, un uomo fragile che avrebbe terminato i suoi giorni in un manicomio, che però le aveva sempre ripetuto quanto fosse bella, lei, Alfonsina, sulla bici, che non doveva mai scendere dal sellino. Dapprima ci furono i Giri di Lombardia, poi, nel 1924, il Giro d’Italia. Se poté iscriversi, fu perché corridori famosi come Girardengo non avrebbero partecipato e, se il giro destava poco interesse, gli sponsor non ci avrebbero guadagnato. Alfonsina serviva da attrattiva, era una stranezza, tutti volevano vedere come quella matta se la sarebbe cavata- figurarsi, più di 300 chilometri, su strade non asfaltate, anche in montagna. E invece- 108 gli iscritti, 90 quelli che si presentarono, 30 quelli che portarono a termine la gara. Tra di loro, Alfonsina.


   Alfonsina Strada (mantenne il cognome del primo marito anche dopo che si era risposata) morì nel 1959. Simona Baldelli ricostruisce per noi la sua vita fatta di difficoltà, di incomprensioni, di sacrifici, di vittorie ma anche di sconfitte. Alfonsina è un esempio per tutti- aveva un obiettivo e non si è arresa davanti a nulla per raggiungerlo, aveva un sogno e non si è lasciata sconfiggere dalla realtà. L’immagine di lei in bicicletta, che cade, si ferisce e si rialza e continua la gara, è la metafora migliore per come dovrebbe essere affrontata la vita. L’episodio in cui, dopo aver rotto il manubrio, prosegue e termina la tappa con un bastone su cui stringere le mani per dirigere la bici è esemplare di una volontà caparbia capace di superare gli ostacoli.

E se è un esempio per tutti, lo è maggiormente per le donne che, da sempre, si lasciano più facilmente influenzare da pregiudizi e stereotipi.


sabato 13 settembre 2025

Claire Lynch, “Una questione di famiglia” ed. 2025

                     Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda



Claire Lynch, “Una questione di famiglia”

Ed. Fazi, trad. Velia Februari, pagg. 216, Euro 17,58

 

    Inghilterra.

 Heron, Dawn, Maggie (e Hazel).

    1982 e 2022.

    Quattro personaggi principali, tre più importanti della quarta, e due piani temporali a quaranta anni di distanza.

    La storia di un amore proibito, di ‘un amore che non osa dire il suo nome’, nelle parole di Oscar Wilde.

    Nel 1982 Dawn ha ventitre anni, è sposata con Heron, un brav’uomo, un bravo marito, un bravo padre per la loro bambina, Maggie, di tre anni. Il loro non è stato un grande amore, non un amore da far battere il cuore, ma non è quello che fanno tutti? Sposarsi, mettere al mondo dei bambini, non è quello che fanno tutti?

Poi l’imprevisto. L’incontro con Hazel, affiatamento e sintonia dapprima. Attrazione sessuale dopo. Inconcepibile, peccaminosa, scandalosa negli anni ’80. Dawn si illude di essere compresa dal marito. La reazione di Heron è durissima. Fa cambiare la serratura, lei non metterà più piede in quella che era la loro casa. E che si scordi di vedere la bambina. È anche quello che decide il tribunale. Dawn darebbe un pessimo esempio di perversione, Heron ottiene la custodia esclusiva della figlia a cui non dirà mai la verità.


    Questo è quanto succede nel 1982. Quaranta anni dopo (i capitoli con le due tracce si alternano) troviamo Heron che vive da solo, mentre la figlia Maggie si è sposata e ha due bambini. Il loro legame è fortissimo, non passa giorno senza che si telefonino, la sollecitudine di Maggie nei confronti di quel padre che le ha dato tutto è commovente, e così l’amore di lui per lei. Peccato che però non le abbia mai lasciato conoscere la madre, non le abbia mai dato le sue lettere, le abbia fatto credere che la mamma l’ha abbandonata senza girarsi indietro.

    È Heron a girarsi indietro adesso che sa di avere un tumore che gli lascerà pochi mesi di vita. I tempi sono cambiati, il suo sguardo sul passato è diverso. E fa in modo che Maggie scopra la verità. È difficile accettarla. Non è difficile comprendere sua madre, lo è di più comprendere l’uomo ferito e scandalizzato che era suo padre. Come ha potuto privarla così dell’affetto della mamma? Dove era la bontà di quell’uomo buono? Maggie deve rivedere tutto, ripensare tutto. Deve andare a cercare Dawn, impresa resa più facile grazie a Internet.

     Con grande delicatezza, con sobrietà e buon gusto, Claire Lynch mette due epoche a confronto. È la sua delicatezza che apprezziamo nelle pagine dei primi incontri di Dawn e Hazel, in quelle in cui una Dawn spaventata si sorprende per la forza di quel nuovo amore, così diverso da quello provato per Heron, e non sa come gestire la situazione. Dire la verità al marito le pare la cosa più naturale, pensa che il fatto che lei sola conosca tutte le necessità di Maggie, dal pigiamino alla favola della buona notte, da quello che le piace a colazione alle attività pomeridiane a cui è iscritta, sia sufficiente perché il marito le permetta di continuare ad occuparsi di lei. Si sbaglia.


E Maggie? Come reagirà Maggie nel vedere la madre di cui ha vaghi ricordi vivere in piena armonia con la donna per cui aveva abbandonato tutto? Non c’è un solo tipo di amore.

     Il romanzo non è una storia vera, ma una storia che potrebbe essere vera- lo dicono le sentenze registrate dei tribunali sul numero delle donne omosessuali che hanno perso la custodia dei figli negli anni ‘80 del secolo scorso, lo dice anche il numero delle donne che neppure hanno provato a rivolgersi ad un tribunale, perché la sentenza era scontata.

   Una storia di amore, di sofferenza, di gioia, di pregiudizi.



giovedì 11 settembre 2025

Tommaso Giagni, “La fabbrica e i ciliegi” ed. 2025

                                                                           Casa Nostra. Qui Italia


Tommaso Giagni, “La fabbrica e i ciliegi”

Ed. Ponte alle Grazie, pagg. 224, Euro 16,50

 

    Una tragedia dimenticata. Meglio, una tragedia ignorata.

Nel 1978 lo stabilimento dell’azienda SLOI fu definitivamente chiuso dopo un incendio che avrebbe potuto provocare una catastrofe ambientale se non fosse stato per l’intervento dei Vigili del Fuoco di Trento comandati dall’ingegner Salvati che capì che utilizzare l’acqua avrebbe peggiorato la situazione a contatto con il sodio e che solo il cemento poteva spegnere la combustione del sodio.

La società produceva miscele antidetonanti per benzine, costituite essenzialmente da piombo tetraetile ed era stata una fabbrica strategica per l’aviazione dell’Asse, l’unica in tutta Europa in grado di produrre piombo tetraetile aggiunto alla benzina degli aerei da guerra.


    Già nel 1942 dei contadini che vivevano nel quartiere di Campotrentino si accorsero che i fumi provocati dalla SLOI distruggevano i loro raccolti di ciliegie e ci furono casi di malattia degli operai, continue denunce per le esalazioni tossiche provenienti dagli stabilimenti e dagli scarichi nelle acque stagnanti del canale là accanto. Gli studi fatti mostravano che la produzione del piombo tetraetile era nociva per la salute e provocava il saturnismo, una intossicazione cronica dovuta all’esposizione accidentale o professionale al piombo.

   Eppure tutte le denunce caddero nel vuoto. Come sempre, è l’economia a far girare il mondo, le vittime ricoverate al manicomio di Pergine, il loro saturnismo classificato come ‘etilismo’, non interessavano a nessuno.


    A volte ci vuole un romanzo per risvegliare i ricordi, per attirare l’attenzione. “La fabbrica e i ciliegi”di Tommaso Giagni è un tuffo nel passato, è una chiarificazione della memoria, è un libro necessario.

    Sono due le immagini di fiori presenti nel libro- i ciliegi accostati alla fabbrica nel titolo, quegli alberi dalla bellezza effimera che non fioriscono più per l’inquinamento del terreno e dell’aria diventando un’immagine di morte, e l’orchidea di palude che appare nell’ultima pagina del libro. Deve ancora fiorire, l’orchidea di palude, nel luogo del cuore di Marilù, una dei protagonisti, però è là, un bulbo sott’acqua che poi fiorirà. È una promessa di speranza e di vita per il futuro. Morte e vita si intrecciano nel romanzo.

    


Cesare, il cinquantenne personaggio principale, è nato dopo la morte del padre. È nato a Trento ma, poco dopo, sua madre si è trasferita a Roma. A lui ha sempre detto che il padre è morto di leucemia. È alla morte della madre che Cesare, ricercatore universitario, trova delle carte, delle lettere che gli insinuano il dubbio che sua madre gli abbia mentito. Per proteggerlo, certo, ma non gli ha detto che suo padre è morto in manicomio.

    Cesare parte, va a Trento, inizia la sua ricerca della verità.

     La storia di Cesare, dello stabilimento dei veleni, di suo padre e di sua madre- una storia che spiega tutto quello che è successo e che è stato insabbiato- si incrocia con una storia minore, di Loris e di Marilù. Ognuno dei due si allontana dal luogo in cui è cresciuto e che sente come una prigione, entrambi si muovono alla ricerca di sé rielaborando il proprio passato. Ed è questo che le diverse storie, i casuali incontri dei personaggi hanno in comune- la necessità di fare i conti con il proprio passato, senza finzioni, qualunque sia il dramma che contiene.

    Uno stile pulito, quasi scolpito. Frasi brevi, nessuna sbavatura. Un romanzo che si legge con piacere, con interesse, con sdegno, che ci lascia turbati per la denuncia che contiene e per le vicende umane che in questa sono coinvolte.