mercoledì 30 ottobre 2024

Ilaria Tuti, “Risplendo Non Brucio” ed. 2024

                                                                    Casa Nostra. Qui Italia

cento sfumature di giallo
thriller storico

Ilaria Tuti, “Risplendo Non Brucio”

Ed. Longanesi, pagg. 390, Euro 20,90

 

   Con “Risplendo Non Brucio” (bellissimo titolo, molto significativo) Ilaria Tuti accantona il romanzo di indagine poliziesca che ha Teresa Battaglia come protagonista e ritorna al genere storico, inaugurato con “Fiore di roccia”. Questo è un thriller storico, per essere più precisi, un’indagine alla ricerca di due assassini nel quadro più vasto della seconda guerra mondiale dove gli assassini sono molti, purtroppo, e i loro crimini sono di un’efferatezza senza paragone.

   Le trame sono due e pure le ambientazioni sono due- il castello di Kransberg e Trieste-, due i personaggi principali- il professor Johann Maria Adami e sua figlia, la dottoressa Ada Adami. È inverno, l’inverno che segue il luglio 1944 del fallito attentato a Hitler e il Führer ha paura, nascosto nel bunker di uno dei suoi Nidi d’Aquila, a Kransberg, per l’appunto.


    Il professor Adami è uno degli scheletri viventi che si aggirano a Dachau, un prigioniero politico. L’ufficiale nazista che viene a cercarlo era stato suo alunno- ora ha un’aria sprezzante di rivincita per la sua superiorità. L’acume del professor Adami è richiesto per far luce sul caso di un giovane nazista che pare essersi suicidato buttandosi giù dalla torre del castello. Ma- e se non fosse suicidio? Se si trattasse di un complotto per eliminare Hitler? Più di un ricatto viene usato per forzare Johann Adami a sciogliere i dubbi- ogni giorno che passa uno dei prigionieri inglesi sarà giustiziato e che messaggio gli si vuol fare arrivare con il succhiotto azzurro che gli hanno messo in tasca?

    A Trieste Ada è sola. Si sente tradita dal padre che ha scelto la coerenza con la sua coscienza e l’ha abbandonata. Non ha più notizie di lui e neppure del marito che si è unito ai partigiani. E poi trema per il suo bambino che un parto con il forcipe ha lasciato con una gambetta più debole- rientrerebbe nell’Aktion T4 dei nazisti? La Risiera di San Sabba, in origine costruita per la pilatura del riso, era diventata un campo di concentramento nazista, le sue ciminiere eruttavano fumo e ceneri. C’erano macchie di sangue sulla neve fuori dalle sue mura- era lì che la giovanissima Margherita, figlia di una famiglia triestina molto in vista era stata aggredita? Non era la prima vittima del mostro che lasciava segni di morsi sul corpo delle ragazze. Ada deve trovare il colpevole, per amore di Margherita e per amore di sua madre che è come una sorella per lei. E forse si avvicina troppo a scoprire la verità, forse la sua stessa vita è in pericolo…


    I due filoni scorrono a capitoli alterni e l’avvicendarsi delle due vicende con i due diversi protagonisti che danno voce a due diverse maniere- maschile e femminile- di vivere la Storia, assicurano l’interesse costante del lettore. Si tratta di due indagini su due crimini che- a ben vedere- potrebbero essere considerati irrilevanti accanto all’operazione di sterminio che ha luogo a Dachau e alla Risiera, che importanza possono avere i prigionieri fucilati e i corpi di chi è stato gettato vivo nelle foibe perché accusato di fascismo? E invece- e non a caso sia Ada sia suo padre sono medici che hanno fatto il giuramento di Ippocrate- “nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto…La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. Sono i versi di John Donne a ricordarci che la tragedia di un crimine non si calcola con i numeri. E vivere non vuol dire sopravvivere, vuol dire non dimenticarsi mai che siamo esseri umani, che non dobbiamo diventare homo hominis lupus.

     Una storia di integrità, di coraggio, di amore filiale, di amore materno, di resilienza, con personaggi veramente esistiti (come l’Obersturmführer Josef Oberhauser a cui fu affidato il comando della Risiera nel 1945), personaggi fittizi e  in più…un pizzico di giallo.



   

 

 

domenica 27 ottobre 2024

Yokomizo Seishi, “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami” ed. 2024

                                            Voci da mondi diversi. Giappone

cento sfumature di giallo


 Yokomizo Seishi, “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami”

Ed. Sellerio, trad. F. Vitucci, pagg.411, Euro 16,00

  

  Un altro romanzo di Yokomizo Seishi, lo scrittore giapponese nato a Tokyo nel 1902 e morto nel 1981 che iniziò a pubblicare negli anni ‘30 del Novecento i suoi ‘gialli’ che hanno per protagonista il detective Kindaichi.

Come i libri precedenti, anche “Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami”, è un mystery, un tipo di ‘giallo’ pieno di interrogativi da risolvere, un puzzle di cui si devono cercare le tessere, ricco di colpi di scena, di piste che non portano da nessuna parte e di false piste.

    Qui tutto inizia con una lettera inviata a Kindaichi da uno studio legale della città di Nasu insieme ad un libro intitolato La vita di Inugami Sahee. Il suddetto Inugami Sahee, morto di recente (in un febbraio degli anni ‘40) nella sua casa sul lago di Nasu, era stato il fondatore di un vasto impero industriale ed era conosciuto come il re della Seta Grezza. Si era fatto da solo, aveva avuto però la fortuna di incontrare, a diciassette anni, il sacerdote scintoista Nonomiya che lo aveva aiutato (e molto probabilmente aveva avuto una relazione amorosa con lui. Nella lettera l’avvocato esprimeva il timore, anzi la quasi certezza, che qualcosa di terribile potesse accadere. Parlava addirittura di un possibile delitto, pregando Kindaishi di recarsi sul posto.


    La questione spinosa è legata al testamento di Inugami, un testamento pieno di codicilli in cui il capofamiglia prendeva in esame tutte le varianti della successione- sembrava veramente un invito ad un omicidio.

Un albero genealogico ad inizio libro aiuta il lettore occidentale, confuso da tutti i nomi simili in cui si imbatte nella famiglia di Inugami Sahee che non si era mai sposato e aveva avuto tre figlie da tre donne diverse. Nel suo testamento Inugami non considerava affatto le figlie, per cui non aveva avuto mai affetto. I possibili eredi sono i nipoti maschi- Sukekiyo, Suketake e Suketomo. Il privilegiato è Sukekiyo che però non è ancora tornato dalla guerra. E poi, con sorpresa generale, c’è la bellissima Tamayo, nipote del sacerdote scintoista, e spunta anche un nome maschile che nessuno ha mai sentito, un tal Shizuma. Chi è? Che rapporti aveva con Inugame?


    La questione sarebbe già abbastanza intricata senza l’aggiunta del ritorno di Sukekiyo. Il quale, però, è stato ferito in guerra e porta sul viso sfigurato una maschera di gomma che ne riproduce le fattezze in una fissità enigmatica. E’ veramente lui? In gioco c’è il patrimonio, legato al matrimonio con la bella Tamayo.

   Già era morto l’avvocato che aveva scritto la lettera, inizia poi la sequenza di altri omicidi commessi in maniera ‘fantasiosa’ che allude ai tre simboli di potere della casata, il crisantemo, il koto (strumento musicale a corde) e l’ascia).

Koto

Vengono fuori segreti taciuti fin troppo a lungo, legami amorosi insospettati, figli illegittimi, gelosie e desideri di vendetta con un breve flash sulla guerra combattuta dal Giappone in Birmania.

   L’ambiente è un paesaggio innevato e freddo come i sentimenti nella famiglia Inugami, anche la celebrata bellezza di Tamayo è fredda. Tutto ben lontano dal Giappone colorato di rosa dei fiori di ciliegio.  

    Una piacevole lettura senza scossoni che fa pensare al genere di indagine deduttiva di Poe, perfetta per chi ama esplorare le cento sfumature del giallo.



venerdì 25 ottobre 2024

Jean-Baptiste Andrea, “Vegliare su di lei” ed. 2024

                                                             Voci da mondi diversi. Francia

          love story
        premio Goncourt

Jean-Baptiste Andrea, “Vegliare su di lei”

Ed. La Nave di Teseo, trad. Simona Mambrini, pagg. 480, Euro 22,00

 

    Francia. Primi anni del ‘900. Una famiglia di immigrati italiani. Lui fa lo scultore. Quando nasce un bambino, il nome pare ovvio. Si chiamerà Michelangelo. Un paradosso: il nome di un ‘grande’ per un bambino affetto da nanismo. Eppure Michelangelo, chiamato Mimo, diventerà anche lui un grande scultore, ricercato dai ricchi (anche dal Papa) che vorranno potergli commissionare statue celebrative.

    Muore il padre in guerra, la madre non riesce a tirare avanti e manda Mimo in Italia, da uno ‘zio’ che in realtà non è suo zio, un altro scultore che ama più il vino che la pietra da scolpire. Eppure, di nascosto, incorrendo nelle sue ire, Mimo inizia ad usare lo scalpello. E quello che fa è sorprendente.

   All’inizio del romanzo Mimo sta morendo. Da anni si è ritirato in un monastero, senza però prendere i voti. La sua storia, quindi è un ritorno al passato, ad una lunga vita trascorsa tra eccessi, guardando le stelle e rotolandosi nel fango. A Pietra d’Alba, dove Mimo vive in una sorta di sudditanza allo zio, vive anche una ricca famiglia nobile- sono gli Orsini. Hanno quattro figli, gli Orsini- il primogenito muore in guerra, il secondo sarà un fedele del Duce, il terzo entra nella Chiesa e il quarto, il quarto è l’unica femmina, Viola. E sarà il grande amore di Mimo.


     Si incontrano quando hanno tredici anni, Mimo e Viola. Si continueranno a incontrare di nascosto nel cimitero, luogo dove nessuno verrà mai a cercarli.  Hanno entrambi un sogno- lui di diventare un grande scultore, lei di volare. Viola vuole costruirsi delle ali per volare, come ha visto nei disegni delle macchine di Leonardo. E Mimo la asseconda. La prima grande statua che Mimo scolpisce è un regalo per lei, è un Orso che esce con impeto dal blocco di marmo. Per i più è un riferimento allo stemma della casata, per loro due è l’orso che Viola ha addomesticato e che ha fatto nascere la leggenda che lei sia capace di trasformarsi in un orso.

     E poi…Viola prova sul serio a volare e l’esito è prevedibile, Viola scompare dalla vista di tutti, Mimo ne chiede invano notizie. Finché viene a sapere che si sposa. Lui non è più il ragazzino ingenuo che è arrivato a Pietra d’Alba. Ha lavorato in un circo, interpretando un ruolo per cui si disprezza, beve (tanto, come lo ‘zio’ che disprezzava), ha frequentazioni poco raccomandabili. Ma deve avere un angelo custode (Viola? Il fratello sacerdote di Viola?) che lo tira fuori dalla sozzura e dall’ignominia. Diventerà veramente un acclamato scultore finché la pietra non gli dirà più niente, finché sarà come cieco, non vedrà più la bellezza nascosta.

    Il tempo è passato, dapprima ci sono state le avvisaglie, poi l’avvento del Duce è diventato realtà. Viola, lo spirito libero, la donna anticonvenzionale che ama la libertà, è acerrima nemica del fascismo. Mimo non sa resistere, è un opportunista. Fino ad un certo punto.


    Quasi un secolo di Storia d’Italia fa da sfondo a questa storia d’amore fuori dagli schemi, una storia che è un inno alla libertà, alla ricerca della bellezza anche dove è nascosta, all’arte che è la sublimazione dello spirito nella materia. Se anni prima l’Orso in qualche maniera raffigurava Viola, l’ultima creazione di Mimo è una Pietà che solo ad una occhiata superficiale può sembrare simile alla Pietà del Buonarroti. C’è Viola in quella Pietà, c’è lo strazio di Viola morente in quella statua. Tutti la cercano nel viso della Madonna, ma dovrebbero guardare meglio, perché non è solo Maria che soffre nella Pietà di Mimo Vitaliani.

     “Vegliare su di lei” ha vinto il premio Goncourt 2023 ed è un affresco così ricco di personaggi ordinari e straordinari, realmente esistiti e inventati, di vicende normali o con qualcosa di fantastico, di episodi reali (il massacro di immigrati italiani ad Aigues-Mortes, in Francia, nel 1893 e la deportazione degli ebrei) e altri fittizi, che è impossibile darne un’idea precisa. Leggetelo e aggiungiamo Mimo ai ‘nani’ o altri personaggi deformi famosi della letteratura, a Oskar del “Tamburo di latta” di Grass e a Quasimodo de “Il gobbo di Nôtre Dame”.



martedì 22 ottobre 2024

Håkan Nesser, “Quattro fratelli per un delitto” ed. 2024

                                                                 vento del Nord

cento sfumature di giallo

Håkan Nesser, “Quattro fratelli per un delitto”

Ed. Guanda, trad. Carmen Giorgetti Cima, pagg. 362, Euro 18,05

      Natale 2020. Imperversa il Covid-19. In Svezia dove la mortalità è alta (e l’autore non risparmia di frecciate il governo per le politiche adottate), le riunioni familiari devono limitarsi ad un massimo di sei persone. In realtà saranno in sette a Sillingbo, anche se gli invitati non lo sanno ancora perché ognuno pensa di essere l’unico. Ludvig, Leif, Lars, Louise- i nomi dei tre fratelli e della sorella iniziano tutti per la stessa consonante. Tre di loro hanno raggiunto la notorietà, anche se in campi diversi- Ludvig è un pittore molto famoso, Leif è professore universitario, Louise è un’attrice (o era, perché da quando c’è il Covid non è stato più possibile girare nessun film). Solo Lars sembra essere mediocre, gestiva due ristoranti che erano stati proprietà del suocero. E solo Leif arriva da solo (è gay, anche se in famiglia si finge di non sapere), perché Ludvig è arrivato con una giovane compagna francese, Lars con la moglie e Louise con la figlia. È stato Ludvig a invitarli, è ammalato e voleva vedere i fratelli e la sorella per una ‘riconciliazione’ dopo anni che non si incontravano, 25 per la precisione.

     La grande casa, che una volta era una scuola, è isolata, ai margini della foresta. Nevica, come è d’obbligo a Natale, in Svezia. In paese si racconta ancora di un delitto mai risolto- una maestra era stata assassinata e la sua bambina era stata così traumatizzata da non parlare per due anni. Si diceva che di tanto in tanto si sentiva gemere un fantasma nella casa.


    È l’atmosfera perfetta per un ‘delitto a porta chiusa’. Se a noi viene in mente “Trappola per topi” di Agatha Christie, è anche lo stesso autore che nomina il famosissimo ‘giallo’ di Agatha Christie. E infatti c’è un delitto: viene ucciso il fratello maggiore e scompaiono due quadri. Si vuol far credere che un ladro sia stato sorpreso e abbia ucciso Ludvig? Non ha senso che un ladro sia entrato in casa adesso, avrebbe potuto agire nei lunghi periodi in cui la casa era disabitata. Di che cosa avevano parlato i quattro fratelli nella riunione a cui solo loro avevano partecipato, su richiesta di Ludvig? Tutti tacciono, tutti insistono sulla ‘riconciliazione’ desiderata da Ludvig che si era riavvicinato a Dio negli ultimi tempi.

    Entrano in scena Gunnar Barbarotti e Eva Backman, incaricati di scoprire il colpevole. E Gunnar Barbarotti è Gunnar Barbarotti, uno dei commissari più simpatici della scena letteraria. Macina lento ma ha intuito, ha la battuta pronta e un senso dell’umorismo che fa spuntare il sorriso sulle nostre labbra. È un umorismo gentile e giocoso, quello di Nesser e del suo Barbarotti, estremamente piacevole.

Barbarotti sullo schermo televisivo

   Alla fine della vicenda i fratelli non sono più quattro (quello che ci fa pena è il fratello più fragile, Lars, sempre bullizzato dagli altri), la soluzione dell’enigma si trova scavando nel passato e tornando alla festa di Mezza Estate in cui i fratelli Rude si erano incontrati per poi non vedersi né sentirsi più per 25 anni.

     Una bella atmosfera nel silenzio innevato della Svezia, anche se ci riporta all’anno da incubo del Covid- il virus che è l’altro assassino del romanzo, così come le dicerie sul fantasma della donna uccisa sono un legame con un altro fantasma che turba le menti dei protagonisti. È impossibile sfuggire ai sensi di colpa.

    Un’ultima breve osservazione: il titolo italiano è troppo esplicito. Non conosco lo svedese ma, per somiglianze con il tedesco, mi sembra essere diverso.



   

 

domenica 20 ottobre 2024

Elena Fischer, “Paradise Garden” ed. 2024

                          Voci da mondi diversi. Area germanica

                                             romanzo di formazione

Elena Fischer, “Paradise Garden”

Ed. Gramma, trad. Susanne Kolb, pagg. 272, Euro 18,05

 

      Mia madre è morta questa estate.

   Quattordici anni è un’età di merda per perdere la madre.

Due frasi così, in apertura del libro, sono un pugno nello stomaco. Un altro pugno che ci fa piegare in due arriva subito dopo, durante il funerale ‘nel giorno più caldo dell’anno’, mentre la bara viene calata nella fossa. Se lei sperava che la mamma comparisse al suo fianco, la prendesse per mano e la portasse via- be’, la mamma non era comparsa. È comparso invece il mio primo ciclo. Può esserci qualcosa di più terribile che diventare donna con il soprassalto di sentire il sangue scorrere sulle gambe e avere appena perso la mamma che avrebbe potuto spiegare e rassicurare?

   La mamma si chiamava (o si chiama, perché la sua assenza è una presenza costante a fianco della figlia) Marika e lei, la figlia che è l’io narrante, Billie. Soltanto a sette anni, a scuola, aveva scoperto che il suo vero nome era Erzsébet. La mamma diceva che Billie era un diminutivo, ma molto più tardi lei verrà a sapere che è tutto un altro nome, che c’è una canzone intitolata con questo nome. E che la canzone deve aver avuto un significato per il cuore della mamma.


    Non abbiate timore che “Paradise Garden” sia un libro sdolcinato, come i libri per l’infanzia del passato dove bambini orfani scoprivano il nonno ricco o si addentravano in giardini segreti. Potrebbe esserlo ma non lo è, perché la voce di Billie ride anche se vorrebbe piangere mentre ricorda tanti episodi di vita passata, perché Marika è una madre giovanissima e tremendamente simpatica, perché  anche se in Marika e Billie c’è qualcosa di Pollyanna (la protagonista del famoso romanzo per bambini di Eleanor Porter che trova sempre qualcosa di positivo in tutto), ci divertiamo a leggere della polvere di stelle che questa mamma spargeva su tutto, trasformando in un divertimento andare a cercare i prodotti scaduti e scartati del supermercato quando i soldi erano finiti, fare la doccia calda approfittando dell’ingresso gratuito in piscina, far apparire la più grande avventura tuffarsi dal trampolino di dieci metri, fingere di essere in villeggiatura mettendo le sedie sul ballatoio quando faceva molto caldo. La mamma raccontava che se n’era andata da casa, in Ungheria, perché sua madre la picchiava, che era stata la prima ballerina al teatro di Budapest, che il padre di Billie l’aveva lasciata. Era tutto vero?

   La nonna, cattiva come quella delle fiabe, bussa alla loro porta, dice di essere ammalata e di avere bisogno di cure. Nella piccolissima casa in cui mamma e figlia abitano, la nonna si prende la stanza di Billie e tira fuori tutte le sue statuette di Gesù e le Bibbie (due, in caso una vada persa). È la fine dell’idillio. E poi succede il peggio, la vita di Billie ha una svolta, il romanzo ha una svolta.


    Fino a questo momento l’ambientazione era stata il condominio di periferia degradata, oltre a Billie i personaggi erano stati la madre e la nonna, l’amica ricca e ‘traditrice’ di Billie e gli amici poveri e generosi che erano anche i vicini di casa, l’unico spostamento era stato il viaggio vagheggiato e mai fatto con i soldi vinti per una risposta giusta ad un quiz radiofonico, adesso tutto cambia e il romanzo diventa, fino ad un certo punto, un romanzo ‘on the road’ con Billie che, pur non avendo la patente, si mette al volante e parte. Per dove, non lo sa neppure lei di preciso. Ha un bagaglio minimo, l’importante è che abbia il quaderno su cui prende appunti perché vuole diventare una scrittrice.


    “Paradise garden” era il nome del gelato più grosso che la mamma aveva comperato per Billie, quello che Billie ha perso è il Giardino dell’Eden, si chiama Sal Paradise il protagonista del romanzo “On the road” di Kerouac che Billie sta leggendo- è una traccia per noi lettori? Per Billie che vuole trovare suo padre, che sognava il mare caldo del Sud dell’Europa e invece arriva sul mare del Nord? è il Paradiso quello che trova in quell’isola semidisabitata e un poco selvaggia? Di certo mette insieme le tessere del puzzle della vita di sua madre. Ognuno ha la sua storia. Mia nonna ha una storia, ce l’ha mia madre e ce l’ho anche io.

    Un libro sfaccettato, che parla dell’amore, dell’essere genitori e dell’essere figli, dell’urgenza di trovare se stessi cercando le proprie radici. Un libro in cui l’eccesso di sentimento si stempera nell’umorismo, forse velato di lacrime ma anche di tenerezza e di gioia di vivere. Nonostante tutto.



venerdì 18 ottobre 2024

Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Giappone



Murakami Haruki, “La città e le sue mura incerte”

Ed. Einaudi, trad. Antonietta Pastore, pagg. 560, Euro 21,80

 

     Ormai lo sappiamo. Prima di iniziare a leggere un romanzo di Murakami Haruki dobbiamo abbandonare la presa della ragione, dobbiamo affidarci alla  sua scrittura senza farci tante domande. Solo allora siamo pronti alla lettura.

     “La città e le sue mura incerte” è diviso in tre parti. La prima è un rifacimento di una novella del 1980 che aveva lo stesso titolo del romanzo. È la storia soffusa dell’incanto del primo amore di un ragazzo diciassettenne e una ragazza che ha un anno meno di lui. Poi lei scompare e lui, per cercarla, entra nella città che avevano passato ore insieme ad immaginare, in ogni minimo dettaglio. Nella seconda parte il protagonista, che ormai ha superato la quarantina, abbandona il suo lavoro e accetta l’incarico di direttore di una biblioteca in una piccola città. Nella terza parte, infine, la storia riprende il filo dentro la città dalle alte mura con un nuovo personaggio che aveva addirittura disegnato una mappa della città fantastica dopo averla sentita descrivere dal direttore della biblioteca.

    La storia dei due adolescenti ha la dolcezza della scoperta dell’amore, fatto di passeggiate, di soste sulle panchine del parco, di parole, parole, parole. Lei racconta della città con alte mura, aggiungendo dettagli che rendono credibile l’incredibile.


Quando lei scompare e lui entra nella città per cercarla, noi lettori siamo messi alla prova. C’è un Guardiano che sorveglia le mura, nessuno può uscire, chi entra deve abbandonare la sua ombra, unicorni tristi si aggirano per le strade e sono gli unici che possono uscire e rientrare. Quando muoiono, il Guardiano provvede a bruciarli. Il ragazzo viene assunto nella biblioteca, il suo compito è fare il Lettore di Sogni. I sogni che gli vengono consegnati in lettura hanno la forma di uova e, per poterli leggere, ha dovuto accettare che i suoi occhi venissero feriti (non ci viene mai spiegato come e perché, possiamo solo immaginare che i sogni non possano essere letti con una capacità visiva perfetta). Ci arrovelliamo anche sul significato dell’ombra che finirebbe per morire se non si ricongiunge al suo proprietario, che cerca di convincerlo a fuggire con lei. E pensiamo a Peter Pan a cui Wendy cuce la sua ombra, a Schlemil ne “La storia straordinaria di Peter Schlemil” di von Chamisso che vende la sua ombra al diavolo per acquistare la ricchezza.

    Nella seconda parte siamo in una città reale e il collegamento con la prima parte sembra è un’altra biblioteca- sembra allora che sia la biblioteca, il valore dei libri, il centro della narrazione. La realtà non è poi così semplice neppure in questa città isolata e con pochi abitanti. Il precedente direttore, che passa le consegne al protagonista, è un tipo stravagante. Indossa sempre un basco nero (e fin qui passi, anche se un basco in quella località del Giappone nessuno lo aveva mai visto) e una gonna a portafoglio sopra una calzamaglia nera. Ci spiegherà lui perché e quando ha iniziato a vestirsi così- è una storia molto triste. C’è dell’altro ancora, riguardo al vecchio direttore, dell’altro che, ancora una volta, è una sfida per la nostra ragione. Nella biblioteca, peraltro, incontriamo un altro personaggio che ha la sua dose di stranezza- un giovane con la sindrome del Savant, che ha, cioè, grandi limiti cognitivi ma anche capacità al di fuori della norma, ad esempio legge, legge sempre e legge di tutto e ricorda tutto.


     È questo giovane, che il protagonista chiama Yellow Submarine dalla scritta sulla sua felpa, che ci riporta nella città dalle alte mura dove il cerchio si chiude.

    “La città e le sue alte mura” è un romanzo che ci lascia perplessi. Come ho detto prima, siamo abituati all’atmosfera sospesa dei libri di Murakami, al passare dal mondo reale a quello immaginario attraversando un confine trasparente, a dialogare con personaggi che solo i protagonisti riescono a vedere, a cercare significati che possono essere diversi per ogni lettore, ma questa volta c’è molto di ‘già letto’, la narrativa è lenta e spesso ripetitiva. Ciò non toglie che non possiamo fare a meno di domandarci perché mai, anno dopo anno, il Comitato del Nobel dell’Accademia svedese non conferisca l’ambito premio a Murakami Haruki.



martedì 15 ottobre 2024

Han Kang, “Atti umani” ed. 2017

                                                      Voci da mondi diversi. Corea

                                                     guerra

premio Nobel 2024

Han Kang, “Atti umani”

Ed. Adelphi, trad. Milena Zemira Ciccimarra, pagg. 205, Euro 11,40

 

      Era il 18 maggio 1980. “5/18”- è con questa numero che si ricorda la data del massacro di Gwangju, nella Corea del Sud. Un bagno di sangue. Da 1000 a 2000 le vittime, forse di più. Come sempre, in questi casi, è impossibile sapere il numero esatto. Nell’ottobre del 1979 c’era stato un primo colpo di stato con l’assassinio del presidente Park Chung-hee, seguito da un secondo colpo di stato a due mesi di distanza: Chun Doon-hwan aveva instaurato un regime dittatoriale che aveva suscitato proteste e manifestazioni da parte di professori e studenti a partire dal marzo 1980. Si chiedevano riforme democratiche e l’abolizione della legge marziale. Seguì una violenta repressione in seguito alla quale aumentarono le proteste fino a culminare nei fatti di sangue del 18 maggio a Gwangju. L’esercito soffocò la rivolta con atti di tremenda crudeltà e il 27 maggio i carri armati entravano in città. Era stata una ‘piccola Tienanmen coreana’.

Chun Doon-hwan

    La Storia di quei giorni (poco conosciuta in Occidente) è lo sfondo del romanzo “Atti umani” della scrittrice Han Kang, vincitrice del premio Nobel 2024. È un libro grondante sangue e dolore, un racconto a più voci e in tempi diversi, perché un episodio così drammatico non si esaurisce nei giorni in cui accaddero i fatti ma lascia una ferita aperta, una memoria mai sopita delle violenze subite, della perdita di chi ci era caro, un susseguirsi di domande senza risposta su che cosa si sarebbe potuto fare per cambiare il corso del destino.

   Il libro è composto da sette ‘quadri’ con sette personaggi ed inizia con un ragazzino di quindici anni, Dong-ho (il suo nome riapparirà spesso in queste pagine, diventa il simbolo della rivolta e della spietatezza dei militari che non esitano a infierire su donne e bambini) che cerca il suo amico. Sua madre, che comparirà in quadro più avanti, aveva cercato di farlo tornare a casa prima che l’esercito entrasse in città. Non ci era riuscita e passerà il resto della sua vita a piangere il figlio e a sentirsi in colpa. Con Don-Ho entriamo nella palestra dove vengono portati i corpi di quelli che sono stati uccisi, solleviamo il lenzuolo che ricopre i cadaveri, restiamo inorriditi dalle ferite.


Una ragazza si prende cura dei morti, li ripulisce, accompagna i familiari per il riconoscimento, accende candele per smorzare il puzzo. La rivediamo cinque anni dopo, lavora come redattrice e si incarica di sottoporre i testi all’ufficio della censura- verrà portata nell’ufficio della polizia e schiaffeggiata perché denunci il nome del traduttore dell’ultima opera teatrale che ha consegnato e di cui non è rimasto quasi nulla dopo le cancellature della censura. Leggiamo di un’operaia e di un prigioniero- quello che tutte queste persone, vive o morte, hanno in comune è l’impossibilità di dimenticare. Anche i sopravvissuti sono morti, sono morti dentro. Hanno subito torture atroci, rivivono le sevizie negli incubi, cercano di annegare i ricordi nell’alcol, alcuni finiscono per suicidarsi.

    Han Kang aveva nove anni all’epoca della rivolta. Da adulta sente che è suo dovere indagare, consultare la documentazione che riesce a trovare (il viso del ragazzino Hong-do la perseguita, riesce a parlare con suo fratello), mettere per iscritto la storia di quei giorni, preservare la memoria delle persone e dei fatti, rompere la barriera del silenzio. Lo fa con uno stile asciutto che non si concede sentimentalismi- in quale altro modo si può parlare di sevizie, torture, atrocità e morte violenta? In quale altro modo si può parlare di una società in cui la pietà è morta? E l’alternarsi di voci diverse, di vivi e di morti, il passaggio da un ‘io narrante’ in prima persona ad una seconda o terza persona, lo spostarsi del tempo, dall’epoca dei fatti agli anni seguenti, fino a quelli più vicini a noi, ci dà l’idea di eternità- delle persone, ma non solo. Del dolore e dell’ingiustizia e del diritto alla libertà.

Un libro per chi vuol sapere, per chi non ha paura di confrontarsi con la malvagità umana. Da leggere.

     Un film del 2017, “A taxi driver”, diretto da Jang Hoon, si ispira alle vicende del 18 maggio 1980.



 

sabato 12 ottobre 2024

Hotate Shinkawa, “Intrigo a Tokyo” ed. 2024

                                               Voci da mondi diversi. Giappone

                                           cento sfumature di giallo

Hotate Shinkawa, “Intrigo a Tokyo”

Ed. Piemme, trad. S. Lo Cigno, pagg. 256, Euro 18,90

 

    Un inizio brusco, in questo mystery giapponese di Hotate Shinkawa, nata a Dallas ma cresciuta a Miyazaki. Serve al lettore per conoscere la protagonista che è anche l’io narrante- la giovane avvocata Reiko (l’autrice del libro ha studiato legge a Tokyo e ha esercitato l’avvocatura). 

Reiko incontra il fidanzato e rifiuta l’anello di fidanzamento che lui le ha comprato- troppo misero, lei vale ben di più, lui avrebbe dovuto spendere più di tre volte tanto. La scena seguente non fa che accentuare questo aspetto della sua personalità: il premio di produzione che le viene dato nello studio legale in cui lavora non è adeguato e Reiko si licenzia. Non si fa problemi a evidenziare il valore che per lei hanno i soldi.

   Ed ecco che incomincia il vero romanzo. È morto Eiji, un compagno di studi di cui Reiko era stata innamorata per un breve periodo. Era un ragazzo molto bello, molto generoso e molto ricco perché la sua famiglia gestiva un’importante casa farmaceutica. Una banale influenza che si era aggravata ne aveva causato la morte. Adesso viene ‘il bello’, alquanto paradossale.


Nel testamento Eiji nomina erede la persona che l’ha ucciso. Ma come? non è morto di morte naturale? E se, entro tre mesi, l’assassino non si trova, tutto il suo patrimonio andrà allo Stato. Ci sono poi molte clausole, è tutto molto dettagliato- è sufficiente dire che Eiji ha lasciato dei beni in eredità anche a tutte le ragazze con cui ha avuto una relazione (ne fa un elenco preciso, c’è anche Reiko nell’elenco oltre ad una cognata e ad altre donne conosciute dalla sua famiglia). A questo punto un comune amico si rivolge a Reiko e la convince a difendere la sua causa: aveva avuto una brutta influenza e ne era appena uscito quando aveva incontrato Eiji- non possono sostenere che è stato lui ad ucciderlo, contagiandolo?

     Ci saranno degli sviluppi, scomparirà il testamento, morirà l’avvocato responsabile di far eseguire le volontà del defunto, la trama si ingarbuglia- come è morto veramente Eiji? E Reiko si trova a riflettere sulla sua smodata ambizione, sul valore dei soldi, prima dell’appianamento finale.


    “Intrigo a Tokyo”- il titolo originale è “My ex-boyfriend’s last will and testament”, più esplicito di quello italiano in cui, peraltro, la parola ‘intrigo’ è perfetta- ha vinto il This Mysery Is Amazing Grand Prize ed è stato adattato per la televisione. È un thriller singolare che non dà assolutamente nessun brivido e si basa su disquisizioni prettamente legali che vengono esposte, però, con gran brio dalla protagonista che si rivela un’avvocata competente con  il gran pregio di saper sorridere di se stessa e della sua fame di denaro. È un romanzo piacevolmente rétro che stuzzica la nostra curiosità e solletica la nostra capacità di mettere insieme i pezzi del puzzle.


venerdì 11 ottobre 2024

PREMIO NOBEL

 




Il premio Nobel per la letteratura 2024 è stato conferito alla scrittrice coreana HAN KANG.

La mia recensione del suo romanzo “L’ora di greco” è stata pubblicata il 26 gennaio 2024.



giovedì 10 ottobre 2024

Etsu Inagaki Sugimoto, “La figlia del samurai” ed. 2024

                                         Voci da mondi diversi. Giappone

      romanzo autobiografico

Etsu Inagaki Sugimoto, “La figlia del samurai”

Ed. ObarraO, trad. Giulia Masperi, pagg. 352, Euro 18,50

 

     Nella provincia di Echigo, dove vivevo, l’inverno iniziava di solito con una fitta nevicata che scendeva rapida e costante finché restavano in vista solo le rotonde travi di colmo dei nostri tetti di paglia.

È un paesaggio del tutto diverso da quello del nostro immaginario con i ciliegi in fiore, questo che ci descrive Etsu Inagaki Sugimoto nel libro autobiografico “La figlia del samurai”. Echigo si trova sulla costa nord-occidentale del Giappone, dove gli inverni sono lunghi ed era necessario ricoprire di paglia le grandi sculture dei leoni davanti ai templi, le lanterne di pietra, gli alberi e i cespugli dei giardini, e pareti di assi verticali fiancheggiavano i marciapiedi sopra i quali si estendeva una sorta di tetto in modo da permettere agli abitanti di camminare protetti dal vento e dalla neve.

    Inizia con questi ricordi, il memoir di Etsu, la figlia del samurai che viveva nel castello di Nagaoka. Con lei c’erano un fratello e una sorella più grandi, ma, dopo che il fratello se n’era andato, alla vigilia del suo proprio matrimonio, era diventata lei la preferita del padre. La chiamavano Etsu-bo, dove il suffisso bo indica un nome maschile, perché era molto vivace e suo padre, un uomo dalla mentalità aperta, aveva voluto per lei degli studi come quelli che avrebbe fatto un ragazzo.


    “La figlia del samurai” è un libro costruito in tre movimenti, seguendo le tre tappe della vita di Etsu (nata nel 1875 e morta nel 1950)- l’infanzia e la prima adolescenza in Giappone, la pienezza della sua esistenza di donna in America, il ritorno in Giappone con due figlie. Il primo movimento è ricco di ricordi nostalgici, di descrizioni di vita quotidiana, di usanze, festività, riti religiosi. Tutto ha un significato, tutto contiene un insegnamento, dalla scrittura degli ideogrammi con il pennello al culto degli antenati. Quello che a noi occidentali può sembrare colore folkloristico ha invece un significato- è affascinante scoprirlo.


Poi Etsu deve raggiungere il promesso sposo, un amico del fratello, a Cincinnati. Sarà un cambiamento radicale e lei è solo una ragazzina. Deve imparare l’inglese, deve valutare che cosa portare via con sé. E l’abbigliamento? Il fratello la sconsiglia di vestirsi con i kimono in America. Se Etsu è spaventata all’idea di lasciare il suo mondo e le persone che ama dietro di sé, non lo dà a vedere, non lo dice. Il viaggio per nave è un assaggio della nuova realtà che la aspetta. Tutto la stupisce, ad iniziare dagli abiti delle signore, al loro comportamento, al cibo che viene servito. E tutto continuerà a stupirla, una volta arrivata.

   Etsu è giovane, ha una mente curiosa, e, anche se non può fare a meno di paragonare ogni nuova esperienza a come sarebbe stata in Giappone, riesce a vivere sulla linea di confine del ‘qui e ora’ e il ‘là e allora’, riesce ad apprezzare le novità, per quanto strane le possano apparire. Su una cosa indugia e ritorna spesso a parlarne- l’educazione formale che viene impartita in Giappone soffoca la spontaneità, impedisce la manifestazione dei sentimenti. La nostra convenzionalità è troppo estrema. Ci sta restringendo l’anima. Odio essere così felice qui, mentre tutte quelle donne pazienti e sottomesse stanno sedute in silenzio nelle loro case tranquille. È in America che Etsu ha visto per la prima volta un uomo e una donna baciarsi. In Giappone ci si inchinava e l’inchino era diverso secondo a chi era indirizzato. Esibire i sentimenti era maleducazione per un giapponese. Eppure…


   Ha già due figlie, Etsu, quando rimane vedova e torna in Giappone. La più grande delle bambine, Hanano, nome bellissimo che vuol dire ‘fiore in una terra straniera’, soffre molto per il distacco, sarà poi felice quando torneranno. La più piccola passerà da una stanza all’altra della casa in Giappone indicando alla madre gli spazi vuoti e minimali- le mancano i mobili, le poltrone, i quadri della casa che hanno lasciato.

     Leggerezza e profondità, poesia e cultura, Storia e miti, c’è tutto il Giappone in questo libro pubblicato per la prima volta nel 1925. È un libro essenziale per conoscere il Giappone. Un libro che ci spalanca le porte di un paese che ci ha sempre incantato. Anzi, ci piace pensare che ci aiuta a varcare la soglia di un torii, la porta tra il sacro e il profano. Ci aiuta a capire, a interpretare i segni di un’altra cultura.