Voci da mondi diversi. Medio Oriente
Eshkol Nevo, “Nostalgia”
Ed. Mondadori, trad. Elena
Loewenthal, pagg. 348, Euro 17,50
Due giovani, Noa e Amir, vanno a
convivere a Castel, tra Gerusalemme e Tel Aviv, già enclave araba. Fanno
amicizia con la coppia che gli affitta la casa e con la famiglia che ha appena
perso un figlio nella guerra in Libano, un muratore arabo (la cui famiglia
possedeva quella casa prima dell’arrivo degli israeliani) ritrova un gioiello
della nonna proprio dove questa lo aveva lasciato. Lo arrestano, mentre un
grave lutto si abbatte su Israele: Rabin viene assassinato il 5 novembre 1995.
Recensione e
INTERVISTA A ESHKOL NEVO, autore di “Nostalgia”- 2007
Chissà che forse non sia la nostalgia la
condizione perenne in cui vive l’uomo dopo la caduta- nostalgia come desiderio
continuo per qualcosa che non c’è più e che apprezziamo ora più che mai, senso
della mancanza di una persona, o di un luogo, o di un sentimento o di una
situazione di vita. Prima o poi tutti i personaggi del romanzo “Nostalgia”
dello scrittore israeliano Eshkol Nevo rimpiangono una perdita, del figlio o
del fratello morto, della serenità familiare, dell’incanto dell’innamoramento, della
casa espropriata, della patria lontana, della pace. E prima o poi tutti i
personaggi ricuciono gli strappi della nostalgia, si adattano, cambiano,
recuperano una parte di quello che hanno perso.
“Nostalgia” è un romanzo a tante voci che
si passano la parola, alternandosi- una coppia di studenti, Amir e Noa, la loro
vicina di casa, il bambino Yotam che ha perso il fratello nella guerra del
Libano, l’amico di Amir che scrive lettere dal Sudamerica e infine il muratore
arabo Saddiq. Ogni tanto, solo ogni tanto, la narrativa procede in terza
persona, come se la cinepresa si allontanasse dal set di questo villaggio,
Castel, che si trova a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv e che proprio per
questo è stato scelto come dimora da Amir e Noa, lui studente di psicologia a
Tel Aviv e lei di fotografia a Gerusalemme, per provare se “funzionano” come
coppia. E quello che è chiaro, prima della fine del romanzo, è che ogni coppia
funziona a suo modo, che la vita è difficile quando si vive insieme, che c’è
molto da imparare sul dare e sul cedere, e che è importante distinguere quello
che ha più valore, di cui non si potrebbe fare a meno. E se a Noa sembra
mancare l’ispirazione nella vicinanza continua di Amir, se lui rimpiange degli
spazi vuoti in cui poter studiare, se la casalinga Sami si concede qualche
fantasia sullo studente vicino di casa, se la coppia che ha perso un figlio
quasi non si parla più, dopo un periodo più o meno lungo di crisi i pezzi si
ricompongono, come se fosse necessario avvicinarsi al bordo di un precipizio e
guardare giù nel buio prima di girarsi e rivedere i colori.
Non c’è un solo protagonista a dominare la
scena in “Nostalgia”. A tratti sembrerebbe essere la coppia di studenti quella
che più ci coinvolge, perché lei è così estrosa, ha un passato buio ed è bella,
e lui è così sensibile che si lascia ferire da tutti i mali di chi dovrebbe
curare, è così bravo nell’instaurare un rapporto con Yotam, il bambino “orfano
di fratello”, e, quando si separano per prova, noi speriamo che tornino
insieme. Ma anche la voce di Yotam, che si sente abbandonato dai genitori in
lutto oltre che dal fratello, ci cattura parlandoci di una casa piena di lumini
come un santuario e di giorni di scuola e compiti non fatti e di ricordi
dell’amato fratello. O quella della casalinga Sami che sa che è meglio
stringersi al marito piuttosto che rubare un bacio ad Amir.
Ci resta da parlare dell’arabo Saddiq, il
personaggio più tragico del romanzo, quello che non ci soddisfa appieno perché
resta in sospeso, come è eternamente in sospeso la Storia degli arabi e degli
israeliani. Perché Saddiq, che abitava in quella casa prima del 1948 e che
ritrova, nascosta dove sua madre gli ha indicato, la catenina d’oro lasciata in
eredità da donna a donna della sua famiglia, viene arrestato. La sua voce tace
dietro le mura della prigione, eppure è a lui che continuiamo a pensare, come a
Ghidi morto ventenne in Libano e a Rabin assassinato- il dramma di Israele che
si intravede nella descrizione iniziale dei due dossi con i due villaggi
“gemelli”, quello ebraico e quello che una volta apparteneva agli arabi. Stilos
ha intervistato Eshkol Nevo, nipote di Eshkol Levi che fu primo ministro di
Israele dal 1963 al 1969.
Nella nota biografica sul quarto di copertina leggiamo che lei ha
passato l’infanzia tra Israele e Stati Uniti: conosce bene il sentimento della
nostalgia, allora? Le parole finale di Modi “Voglio tornare casa”, sarebbero
potute essere le sue parole?
Conosco bene la
nostalgia, e non tanto per il mio soggiorno negli Stati Uniti, quanto per il
fatto che, fino ai 18 anni, ci siamo trasferiti così spesso che avrò cambiato
una dozzina di case: ogni due o tre anni dovevo salutare le persone e
impegnarmi a conoscere una nuova casa. Da adulto, poi, spostarsi di continuo è
diventata una specie di dipendenza, è quello che nel romanzo ho chiamato
“mover’s high”, lo sballo del vagabondo. Poi, finalmente, ho trovato la
stabilità. Il libro è nato da questo, volevo scrivere della nostalgia e della
ricerca di casa. Ho iniziato a scrivere e ho visto che, attraverso il concetto
della nostalgia, potevo trattare altri problemi della società israeliana,
potevo affrontare questioni ideologiche attraverso la nostalgia e il desiderio
di qualcosa che manca.
C’è una descrizione del luogo, all’inizio del romanzo, con i villaggi
gemelli uno di fronte all’altro: sono una metafora della situazione in Israele?
Quello che è buffo è che il luogo è vero,
è un posto in Israele ma è molto piccolo e molti lettori pensavano che fosse
inventato, come Macondo, perché non ne avevano mai sentito parlare. Ci sono due
colline e due villaggi, ma una è la parte ricca e l’altra è povera, una è abitata
da ashkenazi che vengono dall’Europa e l’altra da ebrei del Kurdistan. La
metafora è che hanno costruito un centro commerciale nel mezzo, un luogo
d’incontro tra due luoghi diversi. Come a dire che il capitalismo è il terreno
comune e non importa da dove vieni. La ragione per scegliere questo luogo è che
non è molto noto e così potevo scrivere quello che volevo perché non c’è nessun
romanzo già ambientato lì. Il secondo motivo è che io stesso ci ho abitato,
avevo nostalgia del posto e volevo tornarci. Infine ho scoperto che il luogo
giocava un ruolo importante nella narrativa israeliana e palestinese. Qui è
stata combattuta una battaglia importante nella guerra del 1948: i due villaggi
erano abitati da palestinesi e adesso non ne era rimasto nessuno. Ho fatto
delle ricerche e mi sono reso conto che il romanzo non poteva essere ambientato
in nessun altro posto.
Scegliere di scrivere un romanzo con più voci può essere nello stesso
tempo una scelta facile e difficile: perché ha scelto questa maniera di scrivere?
Anche nel mio primo libro c’erano diverse
voci narranti e, dopo averlo finito, avevo giurato a me stesso che non lo avrei
fatto mai più. E’ difficile trovare dentro di sé cinque o sei voci diverse,
essere diverso ogni volta. All’inizio, in questo libro c’era solo un narratore
in terza persona ma, dopo una trentina di pagine, i personaggi si sono
ribellati. Non avrei proprio voluto che succedesse. I vantaggi sono che ti
svegli al mattino e decidi, ‘parto per il Sud America’ e scrivi con quella voce,
oppure ‘sono una fotografa’…Ma ho dovuto fare molte ricerche- ad esempio, come
parla ebraico un arabo? Mi sono munito di registratore e ho registrato arabi
che parlavano per capire come costruissero le frasi . In un senso più profondo
queste voci mi permettono di mostrare al lettore- e a me stesso- più di una
verità: lo stesso evento si può vedere in molte maniere, come nel film
“Rashomon” di Kurosawa.
Ha parlato della difficoltà nel dare una voce all’arabo Saddiq, quali
sono stati i problemi nel rendere le altre voci? C’è una voce in cui può più
facilmente riconoscere se stesso?
Stranamente è stato facile essere il
bambino Yotam, anche se io non ho perso un fratello e sono il più grande in
famiglia. Eppure era come se avessi un fratellino dentro di me. La voce di
Sima, la casalinga, è stata facile: di nuovo, forse avevo questa donna in me.
Noa sarebbe dovuta essere facile, perché è un’artista e io insegno alla Academy
of Arts, e invece per mesi non riuscivo a scrivere nei suoi panni. Ci sono persone
diverse dentro di te e tu non lo sai. In ognuno c’è qualcosa di me. In Saddiq
mi trovo per la casa che ha perso, in Amir perché anche io sono stato studente
di psicologia e in Modi il viaggiatore perché ho viaggiato molto. Ma non penso
che ci sia un personaggio solo che sia me: questo è parte del divertimento
dello scrivere. Il libro cresce da una ferita che hai dentro.
La voce più accattivante è quella del piccolo Yotam che piange il
fratello e nello stesso tempo vorrebbe attirare l’attenzione dei genitori. E’
anche un libro sulla perdita oltre ad essere un romanzo sulla nostalgia?
La storia di Yotam è una storia di perdita,
la sua nostalgia è più per i genitori così consumati dal dolore. Il problema
principale in casa sua è del bambino che chiede attenzione. E’ un libro su una
società in cui la morte o la perdita sono una costante che trovi ovunque- nel
libro Rabin viene ucciso, questo è significativo. La morte è sempre parte
cruciale della vita ed in particolare nel tempo in cui si svolge il romanzo.
Alla fine la famiglia di Yotam dice di non sopportare più un luogo così pieno
di morte e parte per l’Australia che, nel mio immaginario, è l’opposto di
Israele. Certamente il libro è su una società che vive nell’ombra della morte.
In apparenza il romanzo è una storia d’amore, ma la morte del fratello
di Yotam e l’arabo Saddiq che è gettato in prigione ne fanno anche un romanzo
sulla guerra senza fine che dura da mezzo secolo. Mi pare che, in paragone ad
altri romanzi israeliani, la novità sia nel riconoscere i diritti dei
palestinesi defraudati delle loro abitazioni da parte degli israeliani. E’ un
riconoscimento avvenuto in tempi recenti?
“Nostalgia” è forse il
primo libro in cui il problema si presenta in maniera centrale e per voce di un
arabo, altri romanzi ne parlano come di una questione secondaria. Per questo
“Nostalgia” è ancora provocatorio in Israele. La storia ufficiale non riconosce
ancora la Naqba ,
la “catastrofe” dell’espulsione dei palestinesi nel 1948, perché si teme che i
palestinesi avanzino richieste.
“Nostalgia” è diventato uno dei libri
obbligatori per l’esame finale del liceo, in Israele. Quello che è ironico è
che nell’ora di storia gli studenti non imparano della Naqba e poi passano
all’ora di letteratura e trovano questa versione della Storia. Israele dovrebbe
riconoscere quello che è successo e il prezzo emozionale ed economico pagato
dai palestinesi. I palestinesi vogliono un riconoscimento, non vogliono tornare
“a casa”, sarebbe un altro trauma per quelli che non ricordano di avere avuto
altra casa. Si può parlare però di un risarcimento economico.
Leggiamo il romanzo in traduzione e ci resta la curiosità di sapere come
suoni in lingua originale, che cosa perdiamo leggendolo in italiano: l’ebraico
offre un’ampia possibilità di sfumature per rendere diverse le varie voci?
L’ebraico è una lingua ricchissima, c’è
uno strato biblico della lingua e poi c’è il livello di strada che combina
anche parole arabe e l’influenza americana. Sì, è vero che quella è presente
anche nelle altre lingue europee, ma la posizione europea verso l’America è
ambivalente, mentre gli israeliani adorano la cultura americana- tutti, tranne
gli intellettuali. Nell’originale si capisce subito chi stia parlando. E, anche
se nella traduzione si perde, questo è il prezzo da pagare per avere lettori in
paesi diversi, ognuno con la sua nostalgia.
La letteratura israeliana è al momento fra le più vivaci. Eppure ci
sono state critiche rivolte da giovani scrittori ai “grandi e vetusti”
scrittori più famosi, Yehoshua, Oz, Grossman. Pensa che, in qualche modo,
questi “mostri sacri” possano essere un ostacolo agli scrittori giovani?
Devo dire subito che di
questo confronto ho sentito molto parlare in Italia, perché in Israele i tre
scrittori citati non sono dei miti, in Israele c’è una scena letteraria molto
democratica, ci sono molte voci. Non mi sono mai sentito messo in ombra, ho
molto rispetto per Yehoshua, Oz e Grossman, ognuno di loro ha scritto almeno un
libro che giudico un capolavoro, un libro che mi ha fatto pensare, ‘non
scriverò mai così’. E poi li ammiro perché sono coraggiosi nel modo in cui si
comportano da intellettuali, dicendo le loro opinioni, da farmi pensare ‘è così
che voglio esprimere la mia voce’. Hanno un ruolo importante, non sono sempre
d’accordo con loro, ma li ammiro. In Israele si scrive che quelli della mia
generazione non sono interessati a parlare della realtà nei loro libri: a me
interessa parlare della realtà israeliana e non fare finta di non esserci.
Yehoshua, Oz e Grossman appartengono ad una generazione diversa, la loro lingua
è diversa, il modo in cui scrivono dei rapporti intimi di una coppia, ad
esempio, è diverso- è una cosa che fa parte della loro generazione. Ma c’è
posto per tutti in letteratura, anche per nuove voci.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista "Stilos"
lo scrittore Eshkol Nevo
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