Voci da mondi diversi. Francia
cento sfumature di giallo
INTERVISTA A Dominique Manotti
Optando per un linguaggio gentile e
scartando le parole che si direbbero colloquialmente, possiamo definire
Dominique Manotti come ‘una scrittrice che ha coraggio’. Perché, dopo i romanzi
di indagine poliziesca che avevano per protagonista un commissario gay e che
già mostravano un interesse per certi ambienti e certi crimini, Dominique
Manotti sembra aver virato in un’altra direzione, più impegnata e più ardua-
quella della denuncia dei molti reati della società francese contemporanea.
Quest’ultimo romanzo, “Vite bruciate”, prende spunto da due fatti accaduti alla
fine degli anni ‘90: l’occupazione di una fabbrica terminata con un incendio e
la molto discussa fusione Thomson-Matra. Abbiamo parlato con la scrittrice dei suoi
intenti e dei suoi metodi di scrittura.
Ci ritroviamo un anno
dopo l’altro, quando esce un suo nuovo romanzo…Già avevo osservato lo scorso
anno, dopo aver letto “Le mani su Parigi”, che i suoi romanzi avevano preso una
svolta diversa. Anche “Vite bruciate” è molto noir, anche “Vite bruciate” si aggancia fortemente alla realtà e,
da un certo punto di vista, sembra un reportage: è questo ora il cammino che
intende percorrere, come scrittrice?
Non direi che è veramente un reportage; più, forse, una
ricerca storica. Prima di tutto: ha ragione, questi ultimi due romanzi seguono
lo stesso filone; poi, tornando alle mie ricerche: mi documento molto, prima di
scrivere. Per questo libro ho preso come punto di partenza delle inchieste
sociologiche sulla siderurgia in Lorena: Bourdieu e i suoi allievi hanno fatto
delle inchieste molto belle sulla siderurgia in Lorena. Ho iniziato da lì, poi
sono andata sul posto e ho intervistato tutti quelli che hanno vissuto le
vicende della fabbrica Daewoo. Per me un’intervista è come la storia orale, è
diversa dal giornalismo e dal reportage. Quando si parla con qualcuno, quando
si fanno delle domande, la memoria dei fatti è spesso lacunosa e nebbiosa: ci
si ricorda male dei fatti, mentre ci si ricorda bene dei sentimenti e degli
affetti. La storia orale non cerca di ricostruire i fatti ma i modi di essere e
di vivere, quindi è lontana dal reportage. La mia ultima fonte è stata fornita
dalle ricerche sullo scandalo finanziario della Thomson nel 1996. Dopo, una volta che ho il materiale, immagino; dopo, non sono più una storica, scrivo un romanzo. Dunque non è un reportage nel senso che non ho problemi di
esattezza, sono del tutto libera e i personaggi sono inventati.
E- per quello che
riguarda l’ultima parte della mia domanda- se questo sia ormai il cammino che
intende proseguire, come scrittrice, se voglia continuare a scrivere romanzi
così fortemente agganciati ad una realtà da denunciare?
Sì,
è questo che voglio fare: vorrei essere lo scrittore ‘pubblico’ della mia
epoca, voglio raccontare la società come la vedo.
Inoltre ogni suo nuovo
libro mi pare più ‘nero’, più senza speranza del precedente. E’ una visione del
tutto realista? O, con il passare degli anni, è anche il suo carattere che la
porta ad una visione così buia?
Entrambe le cose, ma è certamente una
visione realista. Questo è un libro scritto prima della crisi e affonda in
pieno nel meccanismo problematico per cui lo scopo di chi dirige le imprese è
fare soldi e NON produrre ricchezza. Tutti conoscono questo meccanismo di
produzione dei soldi e nessuno è stato sorpreso dalla crisi: è un processo che
va avanti da anni. E io da anni cerco di scrivere di questa crisi. La fabbrica
che è al centro del romanzo è stata messa in Lorena unicamente per avere delle
sovvenzioni e non per produrre. Produce soltanto una classe operaia persa,
perché sa benissimo che non produrrà niente.
Quando ho incominciato a
leggere “Vite bruciate”, pensavo che si incentrasse sugli incidenti sul lavoro-
una percentuale altissima in Italia. Invece poi il romanzo vira in un’altra
direzione e un poco mi è spiaciuto: perché lasciar cadere il filone delle morti
bianche?
Perché volevo mostrare come le due sfere-
degli operai e dei finanziatori- che sembrano indipendenti l’una dall’altra, in
realtà interagiscano. Le decisioni prese dal mondo della finanza sembrano
astratte e invece hanno ripercussioni sulla vita degli operai. Gli operai
ignorano tutto dell’ambiente finanziario e viceversa: era l’articolazione dei
due che mi interessava. Tutto il mondo della finanza, i guadagni altissimi, le
cifre di denaro bruciato- tutto questo che in apparenza non ha niente a che
fare con nessun altro, invece è strettamente collegato con gli operai che
muoiono per delle decisioni prese a Londra, o a Parigi o a New York.. Perché i
soldi che non vengono investiti nei macchinari sono stati messi in quelli che
noi chiamiamo ‘i paracadute d’oro’, cioè le indennità per i dirigenti.
Colpisce, nel romanzo,
la distanza che separa le abitudini di vita della classe operaia, e quelle dei
dirigenti, piccoli borghesi corrotti e immorali dietro la facciata di
perbenismo. Mi spiego: Etienne tradisce la moglie con la giovane Aicha; Robin,
cattolico con moglie e sei figli, se la fa con un travestito…Si vuole sottolineare
qualcosa, con questo?
Penso che sia un quadro molto
realista…Attenzione: non vedo l’operaio come rappresentante delle virtù, sano e
morale e dall’altra parte la borghesia corrotta e immorale. Penso che tra gli
operai ci siano piccoli trafficanti…diciamo che: piccoli mezzi piccoli
trafficanti, grandi mezzi, grandi trafficanti…
La vita di provincia che
lei descrive ha qualcosa dei romanzi di Simenon. Di nuovo colpisce la frattura
fra una provincia immutabile e sonnolenta e le nuove spinte commerciali che non
coinvolgono tutti…
La città che rappresento nel libro,
Pondange, è, in realtà, la città di Longwy. Cinquant’anni fa Longwy era tutta
un’altra cosa, era la città più industriale della Francia, la valle della
Chiers era una grande vallata siderurgica: c’era una fabbrica dopo l’altra, lo
spettacolo degli altiforni era impressionante e magnifico- io sono una storica
dell’industrializzazione, ho incominciato da lì ad interessarmi delle
fabbriche. Gli altiforni che lavoravano 24 ore su 24, con le colate di fuoco
che facevano rivivere il mito di Prometeo…era straordinario. Ebbene, sono
tornata a Longwy nel 2003, sono arrivata sul pianoro che domina dall’alto la
città, ho guardato in basso e…non c’era più nulla. Longwy ora è un paese di
2000 abitanti, le case sporche per il fumo delle fabbriche sono state ridipinte
in colori pastello, molto italiane- ci sono tantissimi immigrati italiani nella
zona, sono stati la prima ondata di operai siderurgici. Questo paesaggio di
Simenon è tragico perché è un paesaggio di morti: è la morte dell’industria.
Più in basso c’è Mont St.Martin dove una volta c’era la stazione di scambio
merci più importante di tutta la
Francia : non c’è più. Questa non è l’eterna provincia
immutabile…
Quale altro aspetto nero
della società ci aspetta, nel suo prossimo romanzo? Perché non penso proprio
che scriverà un romanzo rosa…
No,
proprio no. Farò un romanzo sulla vita quotidiana in un commissariato della
periferia parigina: non ci saranno gli investigatori dei romanzi polizieschi,
solo dei semplici poliziotti di base.
l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it
Nessun commento:
Posta un commento