Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
il libro ritrovato
Miljenko
Jergović, “Volga Volga”
Ed. Zandonai, trad. Ljiljana Avirović, pagg. 299, Euro 16,00
Titolo originale: Volga,
Volga
Poi si fa serio e mi dice
che è finita e che devo comprarmi la Volga. Non ha nessun altro a cui venderla,
e lì dove andrà non la potrà più guidare. Gli chiesi dove sarebbe andato, e lui
per la prima volta mi disse che possedeva una casa di villeggiatura a Neum.
Sono pur sempre un alto
ufficiale bosniaco!
Ho sorriso, sperando che
il nostro colloquio potesse proseguire con parole più serene e leggere. Che lui
non nominasse più la vendita di quella macchina.
“Mi
chiamo Dželal Pljevljak. Da trentacinque anni lavoro nell’esercito come civile.”
Troviamo due volte questo incipit nel romanzo “Volga Volga” dello scrittore
croato Miljenko Jergović, nelle due parti in cui è questo personaggio a parlare
in prima persona raccontandoci la sua storia. O la sua versione della storia.
Raccontandoci la sua vita di cui
lui, con l’asserzione della sua identità, è l’unico detentore della versione veritiera.
Chi è questo signor Nessuno su cui aleggia un’ombra che intuiamo
ma di cui non sappiamo nulla fino a quasi la fine del libro? Nella prima parte
l’impressione che ha il lettore è che Dželal Pljevljak parli di tutto tranne
che di quello che è più importante, che non dica nulla del ‘nocciolo della
questione’. Ci lascia con tante domande
in sospeso dopo averci detto molte cose delle tre persone che hanno avuto un ruolo primario nella sua vita: il
generale Karamujić, l’imam Haris Masud e Osman Fatumić. Dželal Pljevljak è
stato l’autista del generale ed è a
lui che questi, quando va in pensione, lascia la sua automobile, la grossa Volga
nera che- viene detto ripetutamente ed è rilevante anche se non sappiamo ancora
il perché- è dura di sterzo, tanto da causare un’ernia al generale. Una volta
messo a riposo, spogliato della sua autorità, Karamujić si suicida, come aveva
accennato che avrebbe fatto.. E questa è solo una della serie di morti che costellano il percorso della vita di Dželal
Pljevljak.
L’imam
Haris Masud
è (anche questo ci è chiaro solo alla fine) il personaggio che meglio
rappresenta il significato di fondo del libro. Masud è molto brutto, eppure la
sua personalità, la sua cultura, i suoi racconti (è un palestinese la cui
famiglia è morta sotto una granata israeliana e i cui sforzi per far fiorire il
deserto sono stati vanificati dalla guerra) soggiogano Dželal Pljevljak. Dželal
Pljevljak pare trovare in lui un fratello nella sventura, un incoraggiamento ad
una via di salvezza nella religione
musulmana. E così Dželal Pljevljak incomincia ad andare, con la Volga del
generale, ogni venerdì alla moschea di Livno, a 116 kilometri da Spalato.
Quello che apprenderemo in seguito di Masud fa vacillare tutto e, insieme alla
vicenda di Dželal Pljevljak, ci porterà a concludere che nessuno e niente sono come appaiono, la verità è elusiva, più di una verità può essere fabbricata ad
arte. La stessa cosa arriveremo a pensare riguardo a Osman Fatumić e ai
suoi straordinari racconti di guerra.
L’incontro di Dželal con la famiglia Fatumić era stato del tutto
casuale, anche se lui aveva attribuito all’influenza inconscia dell’imam l’aver
bussato alla loro porta, un venerdì di viaggio verso la moschea, mentre
nevicava forte e una gomma dell’auto era scoppiata. Era una famiglia misera,
due vecchi, una coppia con un figlio minorato e altri sei bambini. Dželal
Pljevljak li aveva ‘adottati’, proprio come loro avevano ‘adottato’ lui. Dželal
li riforniva di tutto, loro lo accoglievano con affetto, Osman gli raccontava
del suo passato come fosse stato un figlio.
Quando il lettore
incomincia a domandarsi- e allora?-, inizia
la seconda parte, in tutto altro stile. Dati, fatti, testimonianze,
ricostruzioni precise quanto è possibile, varianti. Uno stile giornalistico per cercare di mettere a
fuoco la personalità di Dželal, scavando nella sua vita (c’erano una moglie e
una figlia mai nominate da lui), alludendo ad un crimine da lui commesso il giorno di capodanno del 1988.
Dobbiamo pazientare ancora, però, per sapere tutto. Dobbiamo aspettare che
ritorni a parlare Dželal che sta scontando la pena in prigione. Perché niente
può essere nascosto così bene come la verità quando gli interessati sono
d’accordo. E ci chiediamo anche, colpiti nel profondo, quale sia la colpa più grave: il
crimine? una falsa dichiarazione? avvallare il falso?
Sullo sfondo di questo libro bellissimo di Jergović che
conclude la ‘trilogia delle automobili’ (automobili per dei viaggi che
significano altro) scorre la Storia travagliata della ex Jugoslavia con una
ridda di racconti che ci parlano di guerre che si fondono in una guerra senza fine. Tra fazioni
politiche opposte, tra appartenenze religiose diverse, tra etnie differenti,
ustascia e cetnici. Ci parlano di vicini di casa che diventano nemici, di stati
che scompaiono privando i cittadini del senso di appartenenza, di memorie
congelate nel tempo e di vendette servite fredde.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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