INTERVISTA A TRACY
CHEVALIER
Incontrare uno scrittore ogni volta che
viene pubblicato un suo nuovo romanzo è come proseguire un dialogo interrotto,
è come continuare una frase dopo la sosta di un punto e virgola. Questa volta,
intervistando a Roma Tracy Chevalier, si è aggiunto un altro anello alla catena
che ‘ci’ collega ai suoi romanzi precedenti, perché è più che una semplice
coincidenza che alle scuderie del Quirinale sia in corso una mostra dei quadri
di Vermeer- impossibile non ricordare “La ragazza con l’orecchino di perla”, il
romanzo che ha reso famosa Tracy Chevalier ispirato al quadro della ragazza con
il turbante blu e giallo in testa, il viso girato a metà, la luce che colpisce
la perla al suo orecchio.
Parliamo
ora con lei de “L’ultima fuggitiva”, il romanzo che riporta Tracy in America
insieme alla sua protagonista.
Penso sia stanca di
rispondere alla prima che domanda che tutti devono averle già fatto. Cercherò
di porgliela in un’altra maniera. Perché ritornare in America, dove è nata e
cresciuta, adesso, con Honor? Mi sono
chiesta se il nocciolo del suo romanzo non sia limitato soltanto all’America
del secolo XIX ma non intenda avere, invece, un forte legame con i nostri tempi.
La risposta è semplice: ho sempre pensato
che avrei scritto un romanzo ambientato in America. E adesso era arrivato il
momento. Ho vissuto abbastanza tempo lontana da sentirmi come una straniera nei
confronti del mio paese. Si è capovolta la situazione in cui mi sono trovata
quando sono arrivata dall’America in Inghilterra: allora ero una straniera in
un paese non mio e potevo scriverne prendendone le distanze. Ora è il
contrario: sono abbastanza straniera, dopo tutti questi anni, per scrivere dell’America
con un certo distacco, che è necessario.
E
ho scelto questo soggetto perché ho pensato che l’aspetto più interessante
fosse esplorare l’eredità della schiavitù, di come il retaggio della schiavitù
abbia influenzato e continui ad influenzare gli americani.
Ha dedicato il
libro al Catoctin Quaker Camp e all’Oberlin College e i quaccheri hanno un
ruolo importante nel libro. Era quacchera la sua famiglia? Anche Oberlin
ritorna spesso nel romanzo: è cresciuta in quei dintorni?
La
mia famiglia non è quacchera ma, da bambini, mio fratello, mia sorella ed io
andavamo ad un campeggio quacchero vicino a Washington, perché era un buon
campeggio, ci piaceva la semplicità che c’era lì, ci piaceva il sistema di
valori che venivano proposti. Io vado agli incontri dei quaccheri perché mi
piace il silenzio, proprio come piace a Honor. E poi mia sorella e la mia
matrigna sono diventate quacchere.
Quanto
a Oberlin, sono andata al college a Oberlin, nell’Ohio, dove mi sono laureata
in inglese.
La scelta del tempo
in cui ambientare il suo romanzo: è più il tempo di Harriet Beecher Stowe con
“La capanna dello zio Tom” che di “Via col vento” della Mitchell. Come ha avuto
origine il romanzo?
Non
volevo scrivere un romanzo di guerra, mi interessava di più la crescente
protesta contro la schiavitù, l’interesse degli americani verso la schiavitù. E
l’anno 1850 è quello in cui è stato approvato il Fugitive Slave Act per cui
chiunque aiutasse uno schiavo fuggiasco sarebbe stato chiuso in prigione. Non
solo, ma fu approvato che- e questa era una novità- i cacciatori di schiavi
avevano il diritto di chiedere l’aiuto degli altri cittadini nel loro
inseguimento per acciuffare la preda, e, di nuovo, chi si rifiutava veniva
messo in prigione. Ci furono proteste perché era una legge che veniva sentita
come ingiusta.
Ci sono così tanti fuggitivi nel
libro che mi sono chiesta se il titolo “L’ultima fuggitiva” non sia una
metafora per chiunque fugga dalle durezze della sua situazione, oltre ad essere
consono alla tragica storia degli schiavi.
E’ vero, ci sono molti fuggitivi. Belle
ha lasciato il Kentucky, Donovan fugge dal passato, la famiglia del marito di
Honor è fuggita dal Sud. A quel tempo era tipico degli americani: tutti
venivano da un’altra parte, erano tutti come dei fuggiaschi. Le persone
tendevano a scappare, ad abbandonare un luogo alla ricerca di una vita
migliore. E poi c’erano, naturalmente, i veri e propri fuggitivi: gli schiavi.
Quando nel libro si parla della
“ferrovia sotterranea” non ho potuto far a meno di ricordare “la strada dei
topi” che rese possibile la fuga dall’Europa dei criminali nazisti. Ma, mentre
coloro che aiutarono i nazisti favorirono la fuga di criminali e non correvano
rischi, la situazione di quelli che fungevano da tappe nella ferrovia
sotterranea era più simile a quella di chi nascondeva gli ebrei durante la
seconda guerra mondiale. Ci voleva una buona dose di coraggio per aiutare la
gente di colore, vero?
La situazione per chi nascondeva gli
ebrei era ancora più pericolosa perché i nazisti li punivano con la morte. Era
più rischioso ma, in entrambi i casi, il tentativo di salvare la gente
perseguitata era ed è la cosa giusta da fare. Il mio romanzo è su chi fa la
cosa giusta.
Molti
quaccheri non volevano essere coinvolti, sceglievano la tranquillità, lo
dimostra la famiglia stessa di cui è entrata a far parte Honor. E’ difficile
prendere una posizione e avere il coraggio di mantenerla e far sentire la
protesta.
Quando ho letto dell’abilità di
Honor nel confezionare le trapunte, ho pensato che avrebbe usato le trapunte
per comunicare con gli schiavi fuggiaschi in una sorta di messaggio cifrato,
come so che veniva fatto perché ai neri era proibito imparare a leggere e
scrivere. Come mai non ha usato questo spunto?
Non c’è prova che le trapunte siano state
usate come un codice di segnalazioni. I libri che ne parlano si basano su
quanto ha raccontato una donna, ma non è chiaro quanto questa abbia detto tanto
per raccontare, inventando delle storie. E’ un argomento controverso: pensavo
anch’io che fosse una bella idea, ma siccome non è confermato che le trapunte
fossero usate per quello scopo, dato che non ci sono prove, ho preferito non
usare questo spunto.
La mia ultima curiosità è
linguistica: quale parola ha usato- coerente con i tempi- per indicare gli
schiavi neri e quale è politicamente corretta adesso?
All’epoca la parola usata era “negro”,
oppure “black”: sono i termini che ho usato anche io. “Nigger” era ancora più
spregiativo e lo usa una volta Donovan, il cacciatore di schiavi. “Colored
people” è ormai passato di moda ed ora la parola politicamente corretta è
African American.
l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it
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