venerdì 2 maggio 2014

Tracy Chevalier. "L'ultima fuggitiva"- Intervista- 2013




INTERVISTA A TRACY CHEVALIER

      Incontrare uno scrittore ogni volta che viene pubblicato un suo nuovo romanzo è come proseguire un dialogo interrotto, è come continuare una frase dopo la sosta di un punto e virgola. Questa volta, intervistando a Roma Tracy Chevalier, si è aggiunto un altro anello alla catena che ‘ci’ collega ai suoi romanzi precedenti, perché è più che una semplice coincidenza che alle scuderie del Quirinale sia in corso una mostra dei quadri di Vermeer- impossibile non ricordare “La ragazza con l’orecchino di perla”, il romanzo che ha reso famosa Tracy Chevalier ispirato al quadro della ragazza con il turbante blu e giallo in testa, il viso girato a metà, la luce che colpisce la perla al suo orecchio.
Parliamo ora con lei de “L’ultima fuggitiva”, il romanzo che riporta Tracy in America insieme alla sua protagonista.

Penso sia stanca di rispondere alla prima che domanda che tutti devono averle già fatto. Cercherò di porgliela in un’altra maniera. Perché ritornare in America, dove è nata e cresciuta, adesso, con Honor? Mi sono chiesta se il nocciolo del suo romanzo non sia limitato soltanto all’America del secolo XIX ma non intenda avere, invece, un forte legame con i nostri tempi.
      La risposta è semplice: ho sempre pensato che avrei scritto un romanzo ambientato in America. E adesso era arrivato il momento. Ho vissuto abbastanza tempo lontana da sentirmi come una straniera nei confronti del mio paese. Si è capovolta la situazione in cui mi sono trovata quando sono arrivata dall’America in Inghilterra: allora ero una straniera in un paese non mio e potevo scriverne prendendone le distanze. Ora è il contrario: sono abbastanza straniera, dopo tutti questi anni, per scrivere dell’America con un certo distacco, che è necessario.
E ho scelto questo soggetto perché ho pensato che l’aspetto più interessante fosse esplorare l’eredità della schiavitù, di come il retaggio della schiavitù abbia influenzato e continui ad influenzare gli americani.

Ha dedicato il libro al Catoctin Quaker Camp e all’Oberlin College e i quaccheri hanno un ruolo importante nel libro. Era quacchera la sua famiglia? Anche Oberlin ritorna spesso nel romanzo: è cresciuta in quei dintorni? 

     La mia famiglia non è quacchera ma, da bambini, mio fratello, mia sorella ed io andavamo ad un campeggio quacchero vicino a Washington, perché era un buon campeggio, ci piaceva la semplicità che c’era lì, ci piaceva il sistema di valori che venivano proposti. Io vado agli incontri dei quaccheri perché mi piace il silenzio, proprio come piace a Honor. E poi mia sorella e la mia matrigna sono diventate quacchere.
Quanto a Oberlin, sono andata al college a Oberlin, nell’Ohio, dove mi sono laureata in inglese.

La scelta del tempo in cui ambientare il suo romanzo: è più il tempo di Harriet Beecher Stowe con “La capanna dello zio Tom” che di “Via col vento” della Mitchell. Come ha avuto origine il romanzo?
      Non volevo scrivere un romanzo di guerra, mi interessava di più la crescente protesta contro la schiavitù, l’interesse degli americani verso la schiavitù. E l’anno 1850 è quello in cui è stato approvato il Fugitive Slave Act per cui chiunque aiutasse uno schiavo fuggiasco sarebbe stato chiuso in prigione. Non solo, ma fu approvato che- e questa era una novità- i cacciatori di schiavi avevano il diritto di chiedere l’aiuto degli altri cittadini nel loro inseguimento per acciuffare la preda, e, di nuovo, chi si rifiutava veniva messo in prigione. Ci furono proteste perché era una legge che veniva sentita come ingiusta.


Ci sono così tanti fuggitivi nel libro che mi sono chiesta se il titolo “L’ultima fuggitiva” non sia una metafora per chiunque fugga dalle durezze della sua situazione, oltre ad essere consono alla tragica storia degli schiavi.
      E’ vero, ci sono molti fuggitivi. Belle ha lasciato il Kentucky, Donovan fugge dal passato, la famiglia del marito di Honor è fuggita dal Sud. A quel tempo era tipico degli americani: tutti venivano da un’altra parte, erano tutti come dei fuggiaschi. Le persone tendevano a scappare, ad abbandonare un luogo alla ricerca di una vita migliore. E poi c’erano, naturalmente, i veri e propri fuggitivi: gli schiavi.

Quando nel libro si parla della “ferrovia sotterranea” non ho potuto far a meno di ricordare “la strada dei topi” che rese possibile la fuga dall’Europa dei criminali nazisti. Ma, mentre coloro che aiutarono i nazisti favorirono la fuga di criminali e non correvano rischi, la situazione di quelli che fungevano da tappe nella ferrovia sotterranea era più simile a quella di chi nascondeva gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Ci voleva una buona dose di coraggio per aiutare la gente di colore, vero?
      La situazione per chi nascondeva gli ebrei era ancora più pericolosa perché i nazisti li punivano con la morte. Era più rischioso ma, in entrambi i casi, il tentativo di salvare la gente perseguitata era ed è la cosa giusta da fare. Il mio romanzo è su chi fa la cosa giusta.
Molti quaccheri non volevano essere coinvolti, sceglievano la tranquillità, lo dimostra la famiglia stessa di cui è entrata a far parte Honor. E’ difficile prendere una posizione e avere il coraggio di mantenerla e far sentire la protesta.

Quando ho letto dell’abilità di Honor nel confezionare le trapunte, ho pensato che avrebbe usato le trapunte per comunicare con gli schiavi fuggiaschi in una sorta di messaggio cifrato, come so che veniva fatto perché ai neri era proibito imparare a leggere e scrivere. Come mai non ha usato questo spunto?  

     Non c’è prova che le trapunte siano state usate come un codice di segnalazioni. I libri che ne parlano si basano su quanto ha raccontato una donna, ma non è chiaro quanto questa abbia detto tanto per raccontare, inventando delle storie. E’ un argomento controverso: pensavo anch’io che fosse una bella idea, ma siccome non è confermato che le trapunte fossero usate per quello scopo, dato che non ci sono prove, ho preferito non usare questo spunto.

La mia ultima curiosità è linguistica: quale parola ha usato- coerente con i tempi- per indicare gli schiavi neri e quale è politicamente corretta adesso?
    All’epoca la parola usata era “negro”, oppure “black”: sono i termini che ho usato anche io. “Nigger” era ancora più spregiativo e lo usa una volta Donovan, il cacciatore di schiavi. “Colored people” è ormai passato di moda ed ora la parola politicamente corretta è African American.

l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it







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