il libro ritrovato
Timothy Findley, “Guerre”
Ed. Neri Pozza, trad. Maria
Cristina Ravioli, pagg. 238, Euro 15,00
La guerra del 1914-1918 è passata
nella memoria collettiva come la “Grande Guerra”, perché per la prima volta una
guerra coinvolgeva un così gran numero di potenze mondiali e perché per la
prima volta vennero impiegate armi letali più potenti, armi chimiche e
aeroplani. Remarque, Céline, Hemingway, hanno scritto dei capolavori sulla
prima guerra mondiale. A questi aggiungiamo ora “Guerre” dello scrittore canadese
Timothy Findley, scomparso nel 2001, un libro che, come tutti i grandi libri, offre
diversi livelli di lettura. Il primo, il più facile nella sua drammaticità, è
quello della storia del volontario canadese Robert che salpa per la Francia nel dicembre del
1915, resta gravemente ferito nel giugno del 1916- morirà nel 1922 prima di
aver compiuto ventidue anni. C’è un sottotesto, però, che arricchisce
straordinariamente questa lettura, disseminato di indizi e riferimenti che
completano la storia, trasformandola in una potente denuncia dell’assurdità
della guerra e di tutte le guerre, un lamento virile sullo spreco di gioventù
spezzate, un apprezzamento dei valori dell’amicizia e dell’amore. Chi era
Robert? Il libro si presenta come una specie di inchiesta, una ricerca di
testimonianze per capire l’episodio in apparenza folle che segnò la fine del
ragazzo: sotto il bombardamento nemico, aveva fatto fuggire centotrenta cavalli guidandoli in salvo, come
un cowboy impazzito.
E allora lo scrittore torna indietro, guarda le fotografie
di Robert insieme alla sua famiglia, ascolta chi lo ha conosciuto, cerca di
ricostruire quello che è successo. Aveva una sorella handicappata, Robert, di
cui si sentiva responsabile e, quando lei era morta in un incidente, lui si era
arruolato. E’ questo un indizio della predisposizione di Robert a prendersi
cura dei più deboli- come farà per l’amico Harris che si è ammalato durante il
viaggio in mare; così come il suo rifiuto di uccidere i conigli tanto amati
dalla sorella si collega al trauma di obbedire all’ordine di finire un cavallo azzoppato
e culmina poi quando Robert uccide il ragazzo tedesco sulla linea del fronte.
Una scena bellissima ed emblematica: Robert e i compagni hanno appena scoperto
di essere sopravvissuti ad un attacco di gas e vedono il tedesco, un ragazzino
come loro. Uno scambio di occhiate, un messaggio muto- perché uccidersi? Ma
sarà Robert a sparare- lui, che per errore aveva ripetutamente mancato il
cavallo nella stiva, uccide per errore, perché non è una pistola quella che il
tedesco si allunga a prendere, ma un binocolo. E quel potente simbolo sessuale,
il cavallo, è un filone conduttore per un’allusione, o più di un’allusione,
all’amore omosessuale, implicito nell’amicizia di Robert e Harris, esplicito in
un rapporto spiato in un bordello, culminante nello stupro che Robert subisce-
ma forse è anche dello stupro gigantesco della guerra di cui si vuol parlare.
Il tema della giovinezza sprecata è sottolineato di continuo con citazioni da
libri per ragazzi (è dal libro di Mark Twain il saluto della madre di Robert,
“torna alla zattera, Huck”, solo che Robert non tornerà mai più) in stridente
contrasto con il trattato di Clausewitz sulla guerra che un ragazzo legge nelle
trincee o con i versi di canti religiosi. Un’ultima osservazione sull’atmosfera
di questo splendido romanzo: il ricordo è quello delle vaste praterie del
Canada accarezzate dal vento, la realtà è quella della pioggia implacabile e
del fango che sembra essere stato creato nelle Fiandre, che risucchia i vivi
prima ancora che siano morti.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista Stilos
Timothy Findley |
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