Voci da mondi diversi. Medio Oriente
fresco di lettura
fresco di lettura
Emma McEvoy, “Nella terra di nessuno”
Ed. Nutrimenti, trad. D. Di
Marco, pagg. 228
“Il mio nome è Avi Goldberg. Ho
venticinque anni. Mi trovo in una prigione militare per il mio rifiuto di
servire il mio paese. Dovrei essere a Gaza adesso, e attendere al mio servizio
militare. Invece eccomi qui.”
Non sono le parole con cui inizia
“Nella terra di nessuno”, un romanzo sofferto e teso di Emma McEvoy, una
scrittrice che è israeliana di adozione, avendo sposato un israeliano e avendo
vissuto per anni in un kibbutz ai confini con il Libano prima di tornare nella
natia Irlanda con marito e figli. Tuttavia Avi Goldberg si presenta quasi
subito ed è lui la principale voce narrante del libro. Ad Avi spetta il compito
di parlarci della vita quotidiana nella prigione per obiettori di coscienza,
dell’altro prigioniero, David, la cui storia- senza che nessuno dei due lo
sappia- si incastra in una maniera fatale con la sua, e soprattutto di Saleem,
l’arabo israeliano che aveva conosciuto per caso, un caldo mese di luglio, in
riva al lago, e che era diventato suo amico. Saleem è morto e tocca ad Avi
raccontarci di lui, perché la sua vita non vada persa, come i fogli su cui l’ha
scritta e che affiderà al vento del deserto prima di partire per l’Inghilterra,
terminato il mese di prigionia.
E’ una storia a strati, dalle molteplici letture, quella di “Nella terra
di nessuno”. Una storia che ha il compito di cercare di rispondere a più di un
interrogativo- che cosa ha spinto Avi e David a rifiutare la chiamata che li
avrebbe visti in servizio nella striscia di Gaza? Come è morto Saleem? Come è
stato ferito Avi? E come possono affrontare la situazione i cittadini arabo
israeliani come Saleem, gli “in-between people” (la gente di mezzo) del titolo originale? Ogni personaggio nasconde
una storia, sempre complessa, sempre sofferta- pare che la separazione, l’abbandono e la perdita, siano le parole
chiave per ognuna di loro.
La famiglia di Saleem aveva dovuto
abbandonare il luogo in cui abitava, quel giorno del 1948 che per gli
israeliani segnava la nascita del loro stato e per gli arabi era invece la
Nakba, la ‘catastrofe’. La Nonna non aveva mai dimenticato, mai perdonato. La
stanza arredata uguale a quella che era stata forzata ad abbandonare era pur
sempre diversa. Gli olivi e i gelsomini non erano ‘quelli’. Saleem era
cresciuto credendo che, invece, ci si dovesse integrare nella nuova realtà. Non
era obbligato, in quanto arabo israeliano, a prestare il servizio militare,
eppure si era arruolato. La Nonna non gli aveva più rivolto la parola.
Zio Sabri fa un passo verso di lei. Questa
donna viveva in questa casa, dice. Voleva tornare per vederla di nuovo. Sente
di non stare bene, e vuole vederla. Vive da un’altra parte, ora, non troppo
lontano da qui. Fa un gesto vago della mano verso i villaggi lontani.
La donna ebrea digerisce la cosa. All’inizio aggrotta la fronte e le si
chiudono leggermente gli occhi. Si volta verso tua nonna. E’ la benvenuta, le
dice.
La madre di Avi se ne era andata, all’improvviso, seguendo un olandese
che aveva lavorato nel loro kibbutz. Avi aveva sperato a lungo che tornasse.
Era diventato solitario. Aveva iniziato ad uccidere farfalle e insetti. Ma di
Avi bambino, di Avi adolescente, noi sappiamo da un’altra voce, dalle lettere che
suo padre scrive alla moglie in Olanda. Le scriverà per vent’anni e sono
bellissime lettere d’amore anche se non parlano d’amore ma dei giardini di cui
lui è responsabile, del vento e della pioggia, del caldo soffocante che lei non
sopportava più. E di Avi naturalmente, perché Avi è diventato sua
responsabilità e lui è preoccupato.
David è il vicino di cella di Avi. Sua moglie- l’unica ragazza che lui
abbia mai amato- non lo rivuole in casa, se lui continua a fare obiezione di
coscienza. Non capisce quello che lui cerca di farle intendere, di come gli sia
impossibile prestare servizio a Gaza dopo aver visto quello che ha visto.
Si alternano le narrative in prima persona- Avi che racconta-, quelle in
cui Avi si indirizza ad un ‘tu’ che è Saleem e di cui racconta la vita che
questi, a sua volta, gli aveva raccontato, e le lettere di Daniel, il padre di
Avi che aveva abbandonato l’Inghilterra per venire a costruire qualcosa in cui
credeva. E se ho parlato solo di alcuni aspetti del romanzo è per lasciarvene
scoprire la profondità sotto le diverse narrative- la tensione, le amicizie
impossibili, il ricordo incancellabile di un sopruso, l’odio da cui non può
nascere che altro odio, la violenza, Ramallah e Jenin. Mentre sembra che il
clima sia fatto apposta per partecipare a tutti i sentimenti, i torrenti di
lacrime della pioggia, il vento del deserto che attizza le passioni, il caldo
che infuoca.
Ho un solo appunto per un libro che mi è piaciuto molto: lo stile di
Emma McEvoy mi è parso troppo soft,
mi è parso che avesse una morbidezza non del tutto adeguata ai personaggi per
lo più maschili del romanzo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
Emma McEvoy |
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