mercoledì 24 maggio 2017

Intervista ad Ahmed Mourad, autore di "Polvere di diamante" 2013

                                                Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                                               cento sfumature di giallo


    Ho capito che fosse lui, Ahmed Mourad, prima ancora che si presentasse. L’ho riconosciuto dalla macchina fotografica che aveva in mano e con cui stava fotografando uno degli splendidi cortili di Mantova, dove lo scrittore è stato invitato a partecipare al Festival della Letteratura. Perché in realtà non ho visto lui, Ahmed Mourad, ma Ahmed Kamal, protagonista del precedente romanzo “Vertigo”, il fotografo che riprende con la sua macchina l’omicidio di due uomini d’affari, l’alter ego di Mourad che fu per cinque anni fotografo ufficiale di Mubarak. In questi giorni in cui notizie sempre più fosche ci arrivano dall’Egitto, parliamo con lui della situazione del suo paese e del suo nuovo libro pubblicato da poco dalla casa editrice Marsilio.

Sullo sfondo del nuovo romanzo “Polvere di diamante” c’è la protesta del 2008 contro il governo. Due anni dopo, nel 2011, ci fu un’altra grande protesta che terminò con la destituzione di Mubarak. Adesso, altri due anni dopo, un’altra rivoluzione incendia le strade del Cairo: qual è il legame tra questi tre momenti?
Mubarak
     Ho iniziato a scrivere il mio romanzo nel 2008. Avvertivo un certo allarme per le strade. Sentivo che sarebbe successo qualcosa. La corruzione era eccessiva, dilagante. Il mio romanzo è ambientato nel tempo in cui il sistema iniziava a crollare. Ma, proprio come nella vicenda del libro, tutto, anche quello che accade ora, ha origini più lontane, quando nel 1952 Re Farouk fu deposto, il presidente Nagib fu destituito e l’esercito prese il potere. Dopo ancora fu eletto Nasser e infine arrivò Mubarak. Mubarak fu deposto nel 2011 ma va detto che la Primavera araba non fu pura: è stata aiutata. Arrivò molto denaro ad organizzazioni che erano incaricate di aizzare l’ira del popolo. In seguito hanno preso spazio i Fratelli Musulmani, ma, in realtà, la gente voleva essenzialmente cambiare vita. Ora, nel 2013, il popolo sa quello che vuole. Morsi era solo un burattino dei Fratelli Musulmani, non si sapeva chi altro eleggere, Baradaie aveva rifiutato l’incarico.

Qual è il ruolo dell’esercito in Egitto?
    Per gli stranieri è difficile capire quale sia il ruolo dell’esercito in Egitto. L’Esercito fa quello che dovrebbe fare la polizia. La polizia era stata uno strumento nelle mani di Mubarak ed era odiata per questo. Perché Mubarak aveva paura dell’esercito e lo aveva messo da parte. Quindi, mentre Mubarak e la polizia sono accomunati nell’odio da parte del popolo, l’esercito è visto come amico del popolo. Penso che un generale finirà per essere eletto come capo del governo, perché manca un leader. Ma, mentre nel 1952 ci fu un colpo di stato in cui l’esercito si mosse per primo e non il popolo, adesso, nel 2013, è il popolo che ha iniziato la rivoluzione e l’esercito ha seguito. Quando mi viene chiesto se si tratta di un colpo di stato, rispondo che senza l’esercito il popolo non avrebbe potuto liberarsi dei Fratelli Musulmani, però, d’altra parte, neppure l’esercito ce l’avrebbe fatta senza il sostegno del popolo. Per questo devono restare uniti.

E qual è invece il ruolo degli americani in tutto questo?

   Quando, nel 2011, Condoleezza Rice venne in Egitto, si incontrò prima con i Fratelli Musulmani e dopo con Mubarak. La maniera americana di ‘occupare’ un paese è prima di tutto economica, sostengono l’opposizione, pagano per controllare così ogni paese.

Dove sono finite tutte le aspettative che gli Egiziani avevano posto nel cambiamento del 2011?
    Nel 2011 non era stato presentato un vero e proprio programma, c’erano grandi promesse e poi non è stato fatto niente. C’era bisogno di un nemico e il nemico era Mubarak, ma i Fratelli Musulmani erano uguali a lui. Pensano di essere il vero Islam, dicono di essere la tradizione, pensano di essere l’élite. Sono come i fascisti o i nazisti e succederà per loro come per questi. Raggiungono un culmine e poi c’è la fine. La gente in Egitto non legge, non conosce la Storia dei Fratelli Musulmani: tutti pensano che siano brava gente, dedita alla preghiera. Ma se leggiamo la Storia, vediamo che sono sempre stati dei terroristi, che hanno sempre usato la violenza. Sono come una setta in cui, per entrare, si deve passare attraverso quattro stadi. Come nelle società segrete di un tempo.

Il quadro che Lei fa dell’Egitto nel romanzo è molto nero: ad ogni livello c’è un forte contrasto fra apparenza e realtà. Mentre i musulmani difendono la moralità delle donne in maniera ferrea, si può trovare soddisfazione per ogni perversione sessuale- e tutti lo sanno. Questa perversione nascosta, la ricerca per il piacere proibito, è forse una conseguenza diretta di una società con forti regole religiose?

    Diciamo subito che, per quello che riguarda le donne, non è obbligatorio portare il velo, è una scelta individuale. Poi, come succede in tutte le società, ci sono vari livelli sociali, in certi ambienti le norme sono più severe e le donne indossano il niqab, che lascia liberi solo gli occhi. Nel mio romanzo io parlo di anormalità. Rappresento la parte cattiva della società. Fino a dieci anni fa l’Egitto non aveva Internet, non aveva la Tv satellitare. Quando questa cose sono state disponibili, la gente aveva fame di novità. Ma le anormalità sono eccezioni. C’è un’altra cosa da dire riguardo al sesso. Risale all’epoca ottomana, agli schiavi bianchi, l’uso dell’atto sessuale violento, dello stupro sia sull’uomo sia sulla donna, come il massimo mezzo per umiliare le persone. E’ un’idea sbagliata del sesso.

Dove si sta dirigendo l’Egitto? Verso uno Stato laico o uno Stato religioso?
    Né l’uno né l’altro. L’Egitto tende ad una posizione nel mezzo. Gli egiziani sono molto religiosi ma non sono radicali. Il vero Egitto, da secoli, ama l’Islam normale e stiamo andando in questa direzione. Né laici né estremisti.

Il personaggio principale nei suoi romanzi non è né un detective né un poliziotto. Come mai questa scelta insolita?
    Prima di tutto perché non abbiamo detective in Egitto, solo poliziotti. Mi è parso che, usando una persona comune come protagonista, si potesse rendere più sfaccettata la sua personalità, che i lettori potessero essere più coinvolti con un personaggio così. In questa maniera si esce dal genere comune del thriller. Nel prossimo romanzo il protagonista è uno psicologo ed è una storia dell’orrore. E poi bisogna dire che la polizia in Egitto non è come nei film.


Ho sentito lo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes dire che si è trovato in difficoltà nel creare il suo personaggio di Mario Conde, perché è difficile trovare a Cuba un poliziotto intelligente, onesto, simpatico, una brava persona. Allora è così anche in Egitto?
    Sì, la polizia non è affatto ben vista, i lettori avrebbero odiato un romanzo con un poliziotto come protagonista. Un poliziotto avrebbe rappresentato il sistema di Mubarak, sarebbe diventato un capro espiatorio al posto di Mubarak.

Perché ha scelto di scrivere thrillers? Pensa anche Lei che offrano una buona opportunità per esplorare i mali della società?
    Mi piace leggere libri ‘gialli’ e mi piacciono anche i film del genere. In Egitto, poi, non abbiamo una letteratura di genere poliziesco e, se voglio essere speciale, devo fare qualcosa di nuovo. In Egitto la vita quotidiana è piena di brivido, volevo parlare di qualcosa di diverso. E poi, sì, certamente, penso che questo tipo di romanzi offra un’ottima opportunità per esplorare le zone buie della società.

Lei vive in Egitto. Se Lei vivesse all’estero, pensa che riuscirebbe a scrivere lo stesso tipo di libri? Oppure pensa che perderebbe la presa sulla realtà più viva, quotidiana?
    Penso che scrivere sia accumulazione. Ho vissuto intensamente per 12 anni la realtà del Cairo. Sono passato attraverso l’epoca di Mubarak e poi del generale Tantawy e di Mursi e del presidente temporaneo Mansur. Vivere con l’esercito e quattro presidenti- penso di aver accumulato abbastanza informazioni. Però mi è necessario vivere in Egitto, devo poter toccare, sentire, fiutare. Sono il tipo a cui piace scrivere sotto pressione, la scrittura risulta più aggressiva. Se vivessi da qualche altra parte, perderei ‘il polso’ della situazione.

intervista e recensione sono state pubblicate su www.wuz.it



  

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