Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
Mircea Cărtărescu, “Nostalgia”
Ed.
Voland, trad. Bruno Mazzoni, pagg.327, Euro 16,50
Da dove
iniziare a parlare del romanzo “Nostalgia” dello scrittore rumeno Cărtărescu?
Non dalla trama perché non esiste una trama sequenziale, non dal protagonista perché
sarebbe difficile individuarlo in un romanzo che è un trittico tenuto insieme
dal filo della “nostalgia”. Forse è meglio lasciarsi trascinare dai nostri
ricordi del libro, allacciati ai ricordi che sono il tessuto stesso di questo
romanzo singolare, ricco di echi letterari (Cortázar e García Márquez che non
per niente sono tra le letture di uno dei personaggi, ma anche Kafka nella voce
narrante dello scarafaggio dell’ultima parte, o il Whitman che ama catalogare
elenchi di visioni descrittive), di rimandi filosofici al Simposio di Platone o di richiami alla psicanalisi.
“Nostalgia” è rimpianto per qualcosa che
non c’è più, il passato in questo caso, i giochi dell’infanzia, quelli che
servono per esplorare se stessi e gli altri e il mondo. Ci sono delle coppie in ognuna delle tre parti del libro, fissate
come con un lampo al magnesio sempre nelle pagine finali: un bambino e una
bambina, nudi, che si guardano, mentre i compagni irrompono sulla scena,
arrivandovi da cunicoli e buie gallerie; un ragazzo e una ragazza che fanno
l’amore in una stanza in cui sono giunti percorrendo le sale e i corridoi di un
museo, e ognuno dei due si trasforma nell’altro; un’altra coppia, infine, che
si separa dopo che lei ha continuato a raccontare per tutta la notte.
E’ una
sessualità labile, quella che traluce nelle pagine del romanzo di Cărtărescu,
intercambiabile (si intitola “Gemelli” la seconda parte, in cui il personaggio
si suicida dopo aver indossato gli abiti della sorella), non facilmente
delimitata o esclusiva. Ed è il sogno che predomina in tutto il romanzo, sogno
come rivelazione dell’inconscio, come metodo di conoscenza alla pari del gioco
che è patrimonio dell’infanzia e che si serve delle stesse capacità di
impossibile inventiva del sogno. Se “siamo fatti della stessa materia di cui
sono fatti i sogni” e se “la vita è
sogno”, è impossibile districare (e perché dovremmo?) quello che è sogno da
quello che è la realtà dei più, e allora, dai giochi senza confini dei bambini
nella prima parte si passa all’amore follia dei “Gemelli” con le scene
fantasmagoriche, rutilanti e splendidamente orrende dei reperti del museo che
si risvegliano dal sonno di millenni e prendono ad inseguire gli amanti, e
infine all’esaltazione del sogno in “REM”, nel racconto di Svetlana che unisce
gioco e sogno, con lei stessa bambina che gioca con le amiche ad essere, ognuna
di loro, regina per un giorno, e tutto diventa fantastico, cambia di
dimensione, in un succedersi a ritmo folle di visioni selvaggiamente oniriche. E
la città stessa che fa da sfondo, Bucarest, ha il profilo del sogno, si
sviluppa in profondità, in quei tunnel sotterranei che trasudano paure
nascoste.
Si chiude in un
circolo il romanzo di Cărtărescu, con il personaggio che incontra lo scrittore
che sta scrivendo la sua storia, con la negazione di un “no” ripetuto per una
pagina intera (e non possiamo non ricordare il “sì” che termina l’”Ulisse” di
Joyce). E la nostra sensazione è che- come dice uno dei personaggi- quanto più
è ridotto lo spazio dell’azione, tanto più ampio è il resto del mondo. Che vale
la pena di contrarsi per poter accrescere la meraviglia del mondo. Che la
lettura di un romanzo come questo tiri fuori dal letargo indotto da quella dei
cosiddetti best-seller, ampliando i nostri orizzonti.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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