Voci da mondi diversi. Francia
biografia romanzata
il libro ritrovato
Alexis Salatko, “Horowitz e mio padre”
Ed. Ponte alle Grazie, trad.
Francesco Bruno, pagg. 135, Euro 12,00
Gennaio 1953, Ambroise Radzanov
accompagna il padre Dimitri a New York per ascoltare il concerto del grande
pianista Horowitz in occasione del suo giubileo d’argento. Inizia così,
raccontata dal figlio, la storia di Dimitri, che era stato compagno di studi di
Horowitz al conservatorio di Kiev. Poi c’era stata la rivoluzione, Dimitri
Radzanov era fuggito in Francia, aveva trovato un lavoro, si era sposato e
aveva abbandonato il pianoforte. E Horowitz era diventato, invece, un gigante
della musica.
INTERVISTA A ALEXIS SALATKO, autore di “Horowitz e mio padre”
Il titolo del romanzo di Alexis Salato,
“Horowitz e mio padre”, ci avverte che leggeremo una storia che riguarda il
grande pianista russo e il padre dello scrittore. Meglio, forse, invertire
l’ordine dei soggetti, “Mio padre e Horowitz”, perché questo è un libro d’amore
per un padre. O, addirittura, aggiungere una parola, “La musica, mio padre e
Horowitz”, perché, accanto a Dimitri Radzanov e a Vladimir Gorovitz (così era
il suo nome in Russia), la musica è la grande protagonista del romanzo. Musica
salvifica del corpo e dell’anima, musica
che tiene in vita e ragione di vita o essenza stessa della vita.
Quando i
bolscevichi confiscarono i beni degli ebrei, in Russia, Vladimir Gorovitz dava
concerti per sfamare la sua famiglia, suonava in cambio di cioccolata e salame
(non mangerà più carne dopo l’emigrazione in America). Quando Dimitri Radzanov
lavorava nella fabbrica di dischi in Francia, dove era riuscito a mettersi in
salvo dopo aver combattuto nella Guardia Bianca, era la musica che riusciva a
estrarre dal piccolo pianoforte a un quarto di coda che gli metteva le ali sui
tetti di Parigi. Negli Stati Uniti Gorovitz/Horowitz suonava con accanimento e
con disperazione: non poteva deludere il pubblico, non voleva correre il rischio
di essere rimandato indietro e magari essere spedito come suo padre in Siberia,
dove gli si sarebbero spaccate le dita per il gelo. A Parigi Dimitri tirava
fuori dai tasti Mozart e Lizst e Beethoven, come se quelle note potessero
prolungare la vita dell’amata moglie Violette, o almeno accompagnarla con
dolcezza nel sonno della morte. Uno è famoso, l’altro è sconosciuto- ma qual è
la relazione tra talento e successo? Quale dei due è stato più felice? Horowitz
che è diventato un mito o l’oscuro Radzanov? La risposta la dà lo stesso
Dimitri, quando spiega al figlio che la vita di un concertista “è come scalare
in bici l’Alpe d’Huez tutti i giorni senza sellino. Lui l’ha fatto e credo che
abbia soltanto sfiorato la vera vita, io ho scelto un’altra strada.”
Horowitz |
Che Dimitri Radzanov abbia scelto un’altra
strada è fonte continua di delusione per Anastasie, madre del pianista mancato
e di un altro figlio che amava invece la danza e che è morto di tifo in Russia,
o almeno così pare, fino alla fine in cui vengono svelati parecchi segreti.
Contro Anastasie, francese emigrata in Ucraina perché innamorata della Russia,
madre con sogni di gloria per i figli, orgogliosa delle doti musicali del suo
Dimitri (alla domanda stupita della nuora, “Conoscete Horowitz?”, Anastasie
risponde, “No, signorina, è Horowitz che conosce noi”), ben poco può l’attrice di secondo piano Violette, che ha sposato
Dimitri. A Violette Anastasie attribuisce la colpa che il figlio non abbia
uguagliato Horowitz e si lancia nell’impresa di cercare di stimolare il senso
di rivalità del figlio, strumentalizzando il nipotino che diventa portavoce
delle tappe della carriera di Horowitz. E gli sconvolgimenti dell’Europa della
fine degli anni ‘30 diventano poca cosa a confronto delle due guerre combattute
in casa Radzanov, quella tra suocera e nuora e quella tra i due pianisti, con
Dimitri che colpisce i tasti bianchi e neri per superare la musica suonata da
Horowitz che esce dal grammofono: “Il grande perturbatore del pianeta non era
Adolf Hitler, ma Vladimir Horowitz, un ebreo esiliato negli Stati Uniti di cui
noi seguivamo le imprese dalla periferia parigina finita sotto lo stivale
nazista”.
Vera, falsa, immaginata, la competizione
tra i due pianisti occupa le pagine di un libro pieno di avvenimenti drammatici
perché erano drammatici gli anni in cui vissero i protagonisti, eppure Salatko
ci fa sorridere con il brio del racconto, con la vivacità del lessico
familiare- Horowitz è “Faccia di cavolo”, la nonna è “Caramia”, la poltrona
presa da un vagone di treno in disuso è l’”Orient Express”-, e soprattutto ci comunica
un messaggio che va controcorrente nei nostri tempi: l’importanza dell’essere al di là di tutto, al di là dell’avere e del venire riconosciuto per
quello che si è. Stilos ha intervistato Alexis Salatko.
Romanziere, sceneggiatore cinematografico, scrittore di teatro. Che
cosa hanno in comune e che cosa hanno di diverso queste maniere di esprimere se
stesso?
Certamente scrivere romanzi è quello che
mi permette meglio di esprimere me stesso, anche perché spesso nei miei libri
mi sono basato sulla storia della mia famiglia e su quello che mi è successo.
Come sceneggiatore eseguo, invece, degli ordini e per quello che riguarda il
teatro faccio degli adattamenti dei miei romanzi.
Se è vero il dettaglio che sua nonna faceva l’attrice, l’interesse per
il cinema è un’eredità di famiglia?
Il sogno di mio padre, che era medico, era
di fare del teatro. Per lui fu terribile dover scegliere di studiare di
medicina perché mio nonno lo aveva destinato a questa carriera. Voleva essere
un artista come suo padre, come sua madre che aveva recitato anche con Jean Gabin.
Mio padre scriveva dei brevi drammi teatrali e organizzava delle feste nella sua
casa di Cherbourg in cui recitava lui stesso: da bambino pensavo che mio padre
fosse un attore e ho iniziato la mia carriera di scrittore scrivendo opere per
il teatro. Sì, esiste l’eredità di un interesse per la recitazione e io l’ho
raccolta, anche se poi ho preferito scrivere romanzi. Prima di iniziare a
scrivere “Horowitz e mio padre”, ho chiesto a mio padre il permesso di
raccontare questa storia e mio padre non sa ancora che Alain Malraux, il figlio
di André Malraux, ne sta preparando l’adattamento teatrale: sarà rappresentato
nel teatro francese di New York che si trova nella Piccola Ucraina. E io penso
di preparare una sorpresa per mio padre e portarlo a New York, proprio come lui
ha portato suo padre a sentire Horowitz a New York. Così la vita copia il
romanzo.
Horowitz |
E non ha ereditato affatto il gene musicale dal nonno?
No, io applico la musica alle parole. A
casa mi servivo del vecchio pianoforte, che abbiamo tenuto, come per fare dello
spiritismo e mettermi in contatto con lo
spirito del nonno. Il pianoforte era per me come la madeleine di Proust: tocco i tasti d’avorio per viaggiare nel
tempo, perché non sono dotato per la musica.
Parlando ancora di “eredità”- Lei è nato e cresciuto in Francia, come
suo padre del resto. Avverte però qualcosa di “russo” dentro di sé?
Ho viaggiato
spesso in Russia, siamo in quattro fratelli e due di loro vivono e lavorano in
Russia. Quello che abita in Francia ha adottato una bambina russa e in casa sua
si parla russo e francese. In un altro mio libro spiego meglio la mia “eredità”
russa. Ho ereditato dal nonno qualcosa di radicale che c’è nel mio carattere:
vedo in bianco e nero, passo dalla gioia alla malinconia, sono eccessivo in
tutto. E poi c’è l’eredità letteraria: mia madre è insegnante di letteratura
con un’attenzione particolare alla letteratura russa. Mia madre, che è
francese, ha insegnato a mio padre, russo, ad amare la letteratura russa.
Quando mia madre era incinta di me, leggeva Dostoevskij e per quello mi ha
chiamato come il più piccola dei fratelli Karamazov, Aljoša. E abbiamo
mantenuto tante usanze e abitudini russe in famiglia. Mio nonno è sepolto a
Chatou e tutti gli anni a novembre andiamo a fare un picnic al cimitero, come
si usa in Russia.
Ma non fa freddo per un picnic al cimitero nella Francia del Nord?
Sì, ma ci scaldiamo con
la vodka e intanto parliamo con il morto. E festeggiamo la Pasqua russa…La grande casa
di Cherbourg è come un museo russo, ci sono samovar e mobili e altre cose che i
miei sono riusciti a portare via dalla Russia. Ho sempre chiamato “dacia” la
piccola casa nel giardino della grande casa dove mi rifugiavo a scrivere: senza
elettricità e senza riscaldamento, ma l’ideale per restare “dentro” la
scrittura.
Quanto c’è di vero e quanto c’è di fittizio nel romanzo “Horowitz e mio
padre”?
Sono un romanziere e ci sono delle cose
che devono essere modificate in un romanzo, rispetto alla realtà. Ad esempio il
personaggio del fratello del nonno, Fedor: la parte centrale della storia è
vera ma ho dovuto modificare la fine, la maniera in cui lo abbiamo ritrovato,
perché sarebbe stato troppo complicato raccontare la realtà. La maggior parte
dei fatti narrati è vera: vera la nonna che odia la nuora e che si serve del
nipotino per stimolare il figlio. Soprattutto è vera la storia di due amici
separati dalla rivoluzione, uno è finito in una fabbrica di dischi e l’altro è
diventato musicista famoso. Questo è il mio libro più autobiografico, è la storia
della mia famiglia. Io non ho conosciuto il nonno che è morto prima della mia
nascita e ho dovuto immaginare delle cose su di lui, la sua maniera di parlare.
“Il talento non ha nulla da spartire col successo”, viene detto nel
romanzo. E, parlando dei professori del conservatorio, si dice che questi non
capivano perché Dimitri “sperperasse” il suo talento. Fino a che punto però un
talento viene sfruttato al massimo se non c’è riconoscimento altrui, se non c’è
un successo?
Penso che è la vita che ha
scelto per Dimitri, è stata l’ironia della sorte, sono stati i casi della vita
che hanno voluto che Dimitri fabbricasse dischi e l’altro suonasse. Oltre al
talento ci vuole fortuna. Lou Reed dice che un artista non ha mai abbastanza
fortuna. E’ la vita che distribuisce le carte, c’è a chi capita una bella mano
e a chi no, e ognuno deve giocare con le carte che ha. Ma non è detto che chi
ha una bella mano di carte abbia una vita più felice. Dimitri ha fatto delle
cose belle, ha avuto una bella storia d’amore, un figlio di cui andava fiero,
dei nipoti, anche se non l’ha saputo. E ha continuato a suonare per sé.
Horowitz ha avuto la gloria, però era un virtuoso, il matrimonio con la figlia
di Toscanini non è stato molto felice, sua figlia si è suicidata e lui non è
neppure andato al funerale. Non l’ho scritto nel libro perché volevo che il
concerto al Carnegie Hall dominasse la scena, ma Dimitri ha dato un solo
concerto per gli operai della fabbrica di dischi- mio padre era presente e dice
che è stato un successo.
Horowitz e Wanda Toscanini |
Il divario tra talento e successo è, in certo qual modo, la stessa cosa
del divario tra essere ed avere, come spiegava Erich Fromm?
Sì, penso proprio si
possa dire così: Dimitri ha capito che la vita del musicista richiedeva
sacrificio e che lui non voleva fare la carriera del concertista. Quella non
era la sua idea della musica: la musica per lui non era spettacolo, gli
interessava la ricerca quotidiana di che cosa sia la musica. Come Rachmaninov
disse a Horowitz: ‘ va bene, suoni le ottave più veloce di tutti, sei un
virtuoso, ma questa non è musica.’ D’altra parte Horowitz stesso disse che nei
tre periodi in cui ebbe una depressione nervosa si sentì più musicista che
quando suonava in pubblico- ci fu un lunghissimo periodo di 12 anni in cui Horowitz
non diede concerti. Fu allora che Horowitz si avvicinò alla visione che Dimitri
aveva della musica.
La bisnonna Anastasie, pur con il suo carattere e i suoi pregiudizi, è
un personaggio simpatico che ammiriamo: dopotutto non è un bene che i genitori
siano ambiziosi per i propri figli e li spingano a dare il massimo di sé?
Anastasie aveva due figli, uno che faceva
il ballerino e l’altro il pianista. Il suo preferito era il primo, ma Fedor
morì e le restava solo Dimitri. Fu allora che spostò tutto quello che aveva
sognato per il primo figlio sul secondo, voleva che riuscisse. Se non ci fosse
stata la Rivoluzione ,
se non avesse perso il marito e un figlio, forse Anastasie sarebbe stata meno
ambiziosa: era un fardello troppo pesante per mio nonno Dimitri.
Pensando alla narrativa e alla produzione cinematografica sulla seconda
guerra mondiale, ci sono due elementi ricorrenti: la musica e il gioco degli
scacchi. Pur essendo così differenti, sono entrambi una maniera per
sopravvivere?
C’è anche la letteratura per sopravvivere,
come per Walter Benjamin e Stephen Zweig, che hanno usato la letteratura come
forma di resistenza. E’ vero quello che dice, perché, ad esempio, i tedeschi
amavano la musica, la musica è una lingua che possono capire e rispettavano i
musicisti. E il gioco degli scacchi è un gioco di intelligenza, qualcos’altro
che va rispettato. Un artista con la sua arte può resistere al totalitarismo.
Per ultima la domanda che poteva essere fatta per prima: perché ha
scritto adesso questo romanzo?
Ho vissuto in tanti
luoghi, a Chatou e poi a Cherbourg, a Parigi e di nuovo a Cherbourg. Infine ho
trovato casa a Parigi e aprendo le finestre ho visto che davanti c’era il
cimitero dove era sepolto mio nonno: questo ha fatto scattare la voglia di
scrivere il libro. La seconda scintilla è stata la distruzione della fabbrica
Pathé Marconi per cui aveva lavorato mio nonno. Oggi non ne resta più niente, e
poi mio padre è ormai anziano e desiderava lui stesso scrivere questa storia.
Io glielo avevo promesso già dieci anni fa, che l’avrei scritta, ma mi ci
voleva una maturità letteraria per scriverla: non è facile mettersi nei panni
del proprio padre, si avverte come una vertigine. Bisogna trovare la distanza
giusta con il personaggio, era necessario che avessi vissuto io stesso delle
cose come artista: non scrivo per guadagnare soldi ma perché i libri esistano
di per se stessi. A vent’anni non avrei avuto l’esperienza per scrivere che
cosa è l’arte e che cosa è il successo: non si poteva essere adolescenti e
scrivere questo libro, era necessario diventare un adulto.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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