Voci da mondi diversi. Svizzera
autobiografia
FRESCO DI LETTURA
Sandrine Fabbri, “Domani è domenica”
Ed. Keller, trad. Daniela
Almansi, pagg. 192, Euro 12,75
Chissà che cosa vuol dire, per una bambina di undici anni, perdere la
madre. Chissà che cosa vuol dire, per una bambina di undici anni, essere nella
stanza accanto, sentire un rumore, affacciarsi alla finestra e vedere il corpo
della madre sull’asfalto. Vuol dire qualcosa di così orribile che proprio non
si riesce ad immaginare altro che un piccolo cuore che si arresta insieme a
quello della mamma, per poi riprendere a battere ma diversamente. Gli occhi
hanno impresso sulla retina un corpo senza vita, negli orecchi gli ultimi
rumori, l’acqua che scorreva nel bagno- Sandrine sorvegliava quella sua mamma
che entrava e usciva dalla clinica psichiatrica, un sesto senso di lei bambina
la avvisava del pericolo, non l’avrebbe mai lasciata sola, ma la mamma se la
scrollava bruscamente di dosso. Come quella volta- che la lasciasse stare,
andava in bagno. Dovrà passare molto tempo prima che Sandrine riesca ad
affrontare il fantasma del passato, a scriverne nelle pagine di questo libro.
C’è tutto un percorso alle spalle di
Sandrine Fabbri. C’è la ricerca di un passato non suo ma dei suoi genitori,
un’indagine sulla loro vita per capire che cosa abbia portato sua madre a
togliersi la vita.
E’ terribile, ma è così: è il
matrimonio che ha tolto a sua madre il desiderio di vivere. Perché si è sposata,
allora? Lei, svizzera, esuberante e piena di vita, circondata da corteggiatori
se non anche da amanti. Lui, uno sloveno fuggito dalla Jugoslavia che era
finito a lavorare al Cern a Ginevra, un tipo possessivo che non voleva che lei
avesse un impiego fuori casa. Non aveva saputo sottrarsi alla sua corte?
Sandrine fruga in una scatola piena di
fotografie e cartoline. In una foto la mamma è con l’uomo di cui diceva che era
stato ‘il grande amore della sua vita’. Perché non aveva sposato lui, invece?
Sandrine sa bene quanto potesse essere duro vivere a fianco di un uomo
come suo padre- in fin dei conti lei è rimasta sola con lui dopo la morte della
mamma. E il padre si comportava con la figlia esattamente come aveva fatto con
la madre: lui sapeva quello di cui lei, loro, avevano bisogno. Loro erano sue,
lui avrebbe dato loro tutto quello di cui avevano bisogno.
E’ così che i ricordi si intrecciano-
quelli del passato ricostruito della mamma con quelli di lei, Sandrine, che
diventa un’adolescente ribelle che cerca l’amore ma è incapace di viverlo, che
cambia un uomo dopo l’altro per non stringere mai il rapporto, che torna a casa
e si sente insultare dal padre.
Muore anche il padre e c’è un altro passato da recuperare. Di un uomo
che aveva avuto un altro nome che è stato italianizzato a forza quando è
espatriato, che Sandrine scopre soltanto adesso. Così come scopre solo ora- non
dovrebbe toccare ad un figlio scoprire queste cose- le difficoltà che i
genitori devono aver avuto nel rapporto coniugale più intimo.
E poi resta ancora una cosa da
fare, andare alla clinica, sapere di più sul male oscuro della mamma, sulle
terapie che le erano state fatte, su come sia potuto succedere quello che è
successo.
Non riesce ad essere distaccata, la voce di Sandrine Fabbri che parla
del suicidio della madre. E’una voce che formula frasi brevi, quasi ad
inghiottire le lacrime. A volte sembra debba tirare un respiro, come se stesse
passandosi la mano sugli occhi per scacciare un ricordo o forse, invece, per
richiamarlo. C’è poesia nelle sue frasi, la poesia di un amore troncato, del
rimpianto di non aver potuto godere di quello che spetta ad ogni bambino di
godere, del tormento di non aver capito quello che non avrebbe mai potuto
capire.
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