Diaspora ebraica
Shoah
il libro dimenticato
Marceline
Loridan-Ivens, “Et tu n’est pas revenu”
Ed. Grasset, pagg. 107, Euro
12,90
Edizione italiana: Marceline
Loridan-Ivens, “E tu non sei tornato”, ed. Bollati Boringhieri, trad. M.
Capuani, pagg. 105, Euro 12,90, ebook 6,99
Quanto si può dire, in 107 pagine. Ci può stare tutta una vita, in 107
pagine. Quanto amore ci si può mettere, in 107 pagine. “Ho vissuto perché tu
volevi che io vivessi”, scrive Marceline Loridan-Ivens nell’ultima pagina. E
quel ‘tu’ è suo padre e tutto il libro è una lettera d’amore per suo padre che
non è tornato dai campi di concentramento.
Era il 1944 quando la giovanissima
Marceline Rosenberg (aveva appena sedici anni ma già si era unita alla
Resistenza francese) fu arrestata dalla Gestapo con suo padre, ebreo polacco
emigrato nel 1919 in Francia, un paese che amava e dove pensava sarebbe stato
al sicuro. Furono portati ad Auschwitz-Birkenau con il convoglio numero 71, lo
stesso in cui si trovava Simone Veil che diventò amica di Marceline (e lo fu
per tutta la vita). Bergen- Belsen dopo Birkenau, Theresienstadt infine dove il
10 maggio 1945 arrivò l’Armata Rossa a liberare i prigionieri.
Il racconto di Marceline parte dal pezzetto
di carta sporco e strappato che in qualche maniera suo padre era riuscito a
farle avere laggiù, a Birkenau, così vicina e così lontana da Auschwitz dove
era lui. Un pezzo di carta che valeva un tesoro per lei, che significava che
lui era ancora vivo e chissà che cosa aveva dato in cambio di quel favore
pericoloso all’uomo che le aveva consegnato il messaggio. “Ma chère petite
fille”- erano molto legati, Marceline e suo padre. Molto di più che lei e sua
madre- Marceline ha parole dure per sua madre, e a ragione. Al suo ritorno la
madre è come tutti quelli che non capiscono, che non vogliono sapere. Anzi, sua
madre le chiede se è ancora integra, se potrà ancora trovare qualcuno che la
sposi. Una domanda e una preoccupazione che suonano addirittura grottesche.
Marceline ricorda le parole di suo padre mentre erano internati a Drancy,
quando ancora non potevano neppure immaginare che cosa li aspettasse. Lei
pensava li avrebbero fatti lavorare e si sarebbero potuti vedere la domenica.
Lui le aveva detto, “Tu forse ritornerai perché sei giovane, io non tornerò”. E
non era tornato. Marceline racconta della vita nei campi, di due fuggevoli
incontri con suo padre, della liberazione, del ritorno, dell’attesa quotidiana,
giorno dopo giorno sempre più sfiduciata, del ritorno del padre. “Saresti
dovuto tornare. Ho sempre pensato che per la famiglia sarebbe stato meglio
tornassi tu e non io. Avevano bisogno di un marito, di un padre, più che di una
sorella.” E’ il senso di colpa di chi è sopravvissuto. Cinque anni dopo la fine
della guerra, al mancato ritorno, suo padre fu dichiarato morto. E sua madre si
risposò, con un uomo che aveva perso moglie e cinque figli nei campi e che a
Marceline non piaceva.Marceline con il marito Joris Ivens |
Va avanti e indietro, il racconto di
Marceline. Ci parla del suo incontro con il regista olandese Joris Ivens che
poi avrebbe sposato, un uomo geniale e affascinante che aveva trent’anni più di
lei: era suo padre che voleva ritrovare in lui? e poi ritorna sempre laggiù,
nel luogo da cui nessuno è mai veramente tornato. Alla fine di questo libro,
commovente senza eccedere nel sentimento, sobriamente asciutto nel descrivere
l’orrore, Marceline chiede ad un’amica, “Ora che la vita sta per finire, pensi
che abbiamo fatto bene a tornare dai campi?”. L’amica risponde, “Credo di no,
non si sarebbe dovuto tornare. E tu, che cosa pensi tu?”. Marceline non
risponde subito, poi dice, “Non sono lontana dal pensare come te.”. Poi però
aggiunge un’altra riflessione, un inno alla forza vitale- Ma spero che se la domanda mi venisse fatta di nuovo prima di
andarmene, saprei dire che sì, che ne valeva la pena.
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