mercoledì 19 ottobre 2016

Daphne Du Maurier, “Il capro espiatorio” ed. 2009

                            Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
           il libro ritrovato



Daphne Du Maurier, “Il capro espiatorio”
Ed. il Saggiatore, trad. Bruno Oddera, pagg. 379, Euro 17,00
Titolo originale: The Scapegoat

    Mi sentivo pervaso da un crescente disgusto di me stesso. La sensazione di potenza e di sicurezza si era dileguata, e la mia somiglianza con Jean de Gué non era altro che il trucco di un pagliaccio, una maschera ridicola di colori e di cipria, che già iniziava a liquefarsi sciogliendosi in striature, rivelandomi a me stesso immutato, l’insignificante nullità che ero sempre stato.


    Ho amato molto Daphne Du Maurier quando l’ho ‘scoperta’, ed ero giovane. Ho letto talmente tante volte “Rebecca”, il suo romanzo più famoso (anche per l’adattamento cinematografico con la regia di Hitchcock), che posso recitare a memoria la frase di apertura. E devo farlo nella lingua originale perché l’italiano non può rendere la cadenza musicale delle brevi parole inglesi, l’accento sul pronome ripetuto e infine la musicalità evocatrice del nome del luogo: Last night I dreamt I went to Manderley again.

Mi sono innamorata di nuovo di Daphne Du Maurier adesso, a mezzo secolo di distanza, rileggendo “Il capro espiatorio”, appena ripubblicato dalla casa editrice Il Saggiatore che ha già fatto uscire, lo scorso anno e direttamente in edizione economica, “Rebecca”, “Mia cugina Rachele” e “Gli uccelli e altri racconti”. E non è affatto scontato che un autore che tanto ci ha colpito in passato, operi la stessa magia su di noi quando lo si rilegge anni dopo. Piuttosto il contrario. Eppure ho trovato, ne “Il capro espiatorio”, una raffinatezza di scrittura, un approfondimento psicologico dei personaggi, una varietà di figure minori finemente tratteggiate, una descrizione di paesaggi, una trama che, seppure non particolarmente originale, viene trattata con agilità e destrezza, da indurmi ad affermare che, senza ombra di dubbio, Daphne Du Maurier è una grande scrittrice. Che Daphne Du Maurier merita un posto accanto alle grandi scrittrici inglesi di fine settecento e ottocento, vicino a Jane Austen, alle sorelle Brontë, a George Eliot.
la versione cinematografica del 2012
     La trama sfrutta il tema del doppio o della gemellarità: un professore inglese incontra casualmente a Le Mans, in Francia, il conte Jean de Gué. Per lui è come guardarsi in uno specchio, è come se lo sconosciuto francese fosse il suo gemello. Lui si lamenta della sua solitudine, l’altro non ne può più dei legami famigliari. In breve: il professore si risveglia nella stanza di uno squallido albergo e deve per forza indossare i panni dell’altro- letteralmente, perché l’altro si è preso si suoi abiti, e metaforicamente, perché il fedele autista lo porta al castello dei de Gué, attribuendo le sue proteste agli eccessi alcolici della sera prima. Si capisce a questo punto perché fosse essenziale che l’inglese fosse un professore di storia francese: John diventato Jean parla benissimo il francese, tanto che nessuno si accorge della sostituzione (tranne il cane che ringhia, caso inverso del cane di Ulisse). Perché John accetta di diventare Jean? Ma perché dapprima pensa di rivelare tutto, e poi non è così facile, viene fermato ogni volta che ci prova. E il solitario e mite John, che pensava di ritirarsi tra i frati trappisti, che risentiva della sua incapacità di relazionarsi agli altri, si ritrova con una famiglia complessa (madre, moglie incinta, una figlia, una sorella che non gli rivolge la parola da quindici anni, un fratello la cui moglie chiaramente lo concupisce). Inoltre, badate bene, non ha la più pallida idea di chi sia chi- eccezion fatta per ‘sua’ madre e ‘sua’ figlia perché sono identiche a lui, in una maniera addirittura inquietante.
Alec Guinness nella versione del film del 1959
     Il tempo della vicenda è, ad arte, molto breve, eppure accade tantissimo, sia ‘dentro’ sia ‘fuori’ del protagonista. Dentro di lui ci sono dei cambiamenti stupefacenti, è un po’ come innaffiare una pianta. John/ Jean si affeziona alla bambina (che lo adora), è dolce con la moglie (che proprio non è abituata ad un marito così), prova compassione verso la madre autoritaria (ne scoprirete il perché), si dispiace del mutismo della sorella, capisce il senso di inferiorità del fratello cadetto. E mette il piede in fallo di continuo, perché non sa niente di quel donnaiolo senza scrupoli e irresponsabile del conte Jean de Gué che possiede una vetreria sull’orlo del fallimento. Non sa né del contratto di nozze con la moglie né delle innumerevoli donne con cui intrattiene delle relazioni, non sa neppure di essere responsabile dell’uccisione del fidanzato della sorella (giustiziato in maniera orrenda), e neanche di avere un passato nella Resistenza. Pur non sapendo nulla John/ Jean si lascia coinvolgere, non è mai passivo. Cerca di rimediare al malfatto dell’uomo che sostituisce, a volte provocando danni ulteriori, diventando lui stesso il capro espiatorio dell’altro.

Ho accennato al cane, che non riconosce il suo padrone nel sostituto del conte; c’è un altro personaggio, una donna di notevole fascino, che- unica- si accorge dell’inganno e indica la differenza in una sola parola, una qualità di John/ Jean: la sua tendresse.

    Con questo dettaglio che valorizza un lato considerato meno virile dell’uomo, vi lascio al piacere della lettura di questo romanzo in cui Daphne Du Maurier riesce a parlare di due personaggi mettendone uno solo sul palcoscenico, imprigionando l’attenzione del lettore fino all’ultimo colpo di scena.

la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it


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