Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
il libro ritrovato
Daphne Du Maurier, “Il capro espiatorio”
Ed. il Saggiatore, trad. Bruno
Oddera, pagg. 379, Euro 17,00
Titolo originale: The Scapegoat
Mi sentivo pervaso da un crescente disgusto
di me stesso. La sensazione di potenza e di sicurezza si era dileguata, e la
mia somiglianza con Jean de Gué non era altro che il trucco di un pagliaccio,
una maschera ridicola di colori e di cipria, che già iniziava a liquefarsi
sciogliendosi in striature, rivelandomi a me stesso immutato, l’insignificante
nullità che ero sempre stato.
Ho amato molto Daphne Du Maurier quando
l’ho ‘scoperta’, ed ero giovane. Ho letto talmente tante volte “Rebecca”, il
suo romanzo più famoso (anche per l’adattamento cinematografico con la regia di
Hitchcock), che posso recitare a memoria la frase di apertura. E devo farlo
nella lingua originale perché l’italiano non può rendere la cadenza musicale
delle brevi parole inglesi, l’accento sul pronome ripetuto e infine la
musicalità evocatrice del nome del luogo: Last
night I dreamt I went to Manderley again.
Mi sono innamorata di nuovo di Daphne Du Maurier adesso, a
mezzo secolo di distanza, rileggendo “Il capro espiatorio”, appena ripubblicato
dalla casa editrice Il Saggiatore che ha già fatto uscire, lo scorso anno e
direttamente in edizione economica, “Rebecca”, “Mia cugina Rachele” e “Gli
uccelli e altri racconti”. E non è affatto scontato che un autore che tanto ci
ha colpito in passato, operi la stessa magia su di noi quando lo si rilegge
anni dopo. Piuttosto il contrario. Eppure ho trovato, ne “Il capro espiatorio”,
una raffinatezza di scrittura, un approfondimento psicologico dei personaggi,
una varietà di figure minori finemente tratteggiate, una descrizione di
paesaggi, una trama che, seppure non particolarmente originale, viene trattata
con agilità e destrezza, da indurmi ad affermare che, senza ombra di dubbio,
Daphne Du Maurier è una grande
scrittrice. Che Daphne Du Maurier merita un posto accanto alle grandi
scrittrici inglesi di fine settecento e ottocento, vicino a Jane Austen, alle sorelle
Brontë, a George Eliot.
la versione cinematografica del 2012 |
La trama sfrutta il tema del doppio o
della gemellarità: un professore inglese incontra casualmente a Le Mans, in
Francia, il conte Jean de Gué. Per lui è come guardarsi in uno specchio, è come
se lo sconosciuto francese fosse il suo gemello. Lui si lamenta della sua
solitudine, l’altro non ne può più dei legami famigliari. In breve: il
professore si risveglia nella stanza di uno squallido albergo e deve per forza
indossare i panni dell’altro- letteralmente, perché l’altro si è preso si suoi
abiti, e metaforicamente, perché il fedele autista lo porta al castello dei de
Gué, attribuendo le sue proteste agli eccessi alcolici della sera prima. Si
capisce a questo punto perché fosse essenziale che l’inglese fosse un professore
di storia francese: John diventato Jean parla benissimo il francese, tanto che
nessuno si accorge della sostituzione (tranne il cane che ringhia, caso inverso
del cane di Ulisse). Perché John accetta di diventare Jean? Ma perché dapprima
pensa di rivelare tutto, e poi non è così facile, viene fermato ogni volta che
ci prova. E il solitario e mite John, che pensava di ritirarsi tra i frati
trappisti, che risentiva della sua incapacità di relazionarsi agli altri, si
ritrova con una famiglia complessa (madre, moglie incinta, una figlia, una
sorella che non gli rivolge la parola da quindici anni, un fratello la cui
moglie chiaramente lo concupisce). Inoltre, badate bene, non ha la più pallida
idea di chi sia chi- eccezion fatta per ‘sua’ madre e ‘sua’ figlia perché sono
identiche a lui, in una maniera addirittura inquietante.
Alec Guinness nella versione del film del 1959 |
Il tempo della vicenda è, ad arte, molto
breve, eppure accade tantissimo, sia ‘dentro’ sia ‘fuori’ del protagonista.
Dentro di lui ci sono dei cambiamenti stupefacenti, è un po’ come innaffiare
una pianta. John/ Jean si affeziona alla bambina (che lo adora), è dolce con la
moglie (che proprio non è abituata ad un marito così), prova compassione verso
la madre autoritaria (ne scoprirete il perché), si dispiace del mutismo della
sorella, capisce il senso di inferiorità del fratello cadetto. E mette il piede
in fallo di continuo, perché non sa niente di quel donnaiolo senza scrupoli e
irresponsabile del conte Jean de Gué che possiede una vetreria sull’orlo del
fallimento. Non sa né del contratto di nozze con la moglie né delle
innumerevoli donne con cui intrattiene delle relazioni, non sa neppure di
essere responsabile dell’uccisione del fidanzato della sorella (giustiziato in
maniera orrenda), e neanche di avere un passato nella Resistenza. Pur non
sapendo nulla John/ Jean si lascia coinvolgere, non è mai passivo. Cerca di
rimediare al malfatto dell’uomo che sostituisce, a volte provocando danni
ulteriori, diventando lui stesso il capro espiatorio dell’altro.
Ho accennato al cane, che non riconosce
il suo padrone nel sostituto del conte; c’è un altro personaggio, una donna di
notevole fascino, che- unica- si accorge dell’inganno e indica la differenza in
una sola parola, una qualità di John/ Jean: la sua tendresse.
Con questo dettaglio che valorizza un lato
considerato meno virile dell’uomo, vi lascio al piacere della lettura di questo
romanzo in cui Daphne Du Maurier riesce a parlare di due personaggi mettendone
uno solo sul palcoscenico, imprigionando l’attenzione del lettore fino all’ultimo
colpo di scena.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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