vento del Nord
cento sfumature di giallo
FRESCO DI LETTURA
Henning Mankell, “Stivali di gomma svedesi”
Ed.
Marsilio, trad. A. Stringhetti e Laura Cangemi, pagg. 425, Euro 19,50
A un anno dalla morte di Henning Mankell,
è come se la sua voce ci giungesse dall’aldilà in questo romanzo appena
pubblicato in Italia ma apparso in libreria in Svezia prima della sua scomparsa.
Anzi- e questa è una cosa bellissima- è come se lui fosse ancora qui fra noi,
ad aiutarci a capire la realtà che ci circonda, Scrivo per cercare, in un modo o nell’altro, di rendere il mondo più
comprensibile, aveva detto. E’ come se non ci avesse mai lasciato.
“Stivali di gomma svedesi” è un libro
molto bello e molto triste, è percorso da quel filone di tristezza che già
avevamo notato in “Scarpe italiane”, ne “L’uomo inquieto” o ne “L’occhio del
leopardo”, per non dire di “Sabbie mobili”, il libro in cui Mankell affronta a
viso aperto la sua malattia. Una tristezza che non si può rifiutare e a cui non
si può reagire, perché fa parte dell’ordine delle cose, è come la lieve
malinconia che ci prende all’ora del tramonto con la consapevolezza che il
giorno si chiude, cala la notte, chissà se il sole sorgerà ancora.
Il protagonista di “Stivali di gomma
svedesi” è lo stesso di “Scarpe italiane”, quel Fredrik Welin che era stato un
noto chirurgo e che, dopo un grave errore durante un intervento, si era
ritirato a vivere in totale solitudine sull’isola dell’arcipelago in cui un
tempo avevano abitato i suoi nonni. Il romanzo inizia con un incendio- durante
la notte la casa di Welin (io narrante della vicenda) è divorata dalle fiamme.
Lui stava dormendo, è riuscito a fuggire fuori, vestito alla bell’e meglio, con
due stivali spaiati ai piedi. Welin perde tutto nell’incendio, si adatta a
vivere nella roulotte in cui stava la figlia Louise, quando veniva sull’isola.
Quella figlia di cui Welin non sapeva nulla finchè- e questa è la storia di
“Scarpe italiane”- Harriet era apparsa sul ghiaccio spingendo un deambulatore:
veniva a trovarlo, uscendo dal passato, perché lui mantenesse la promessa di
portarla a vedere il lago di cui un tempo le aveva parlato. Una stranezza: tra
le ceneri della casa balugina la fibbia di una delle scarpe che l’italiano
Giaconelli aveva fatto per Welin. E’ l’unica cosa che è rimasta e ci sembra che
sia un indizio del declino di tutto, del sottotono in cui saranno vissuti i
giorni da ora in poi: Welin aspetterà per tutto il libro che arrivino nel
negozio degli stivali di gomma verdi (stivali e non scarpe, per queste è
passato il tempo), corteggerà la giornalista molto più giovane di lui, senza
speranza e consapevole del rischio del ridicolo e del patetico, si dibatterà
nel dubbio se valga la pena di ricostruire la casa, mangerà pane e burro e si
scalderà dei barattoli di minestra.
Welin
sarà sospettato di aver appiccato lui stesso il fuoco alla sua casa, finché ci
saranno altri incendi, di uno in particolare Welin non può essere responsabile
perché è a Parigi alla ricerca della figlia, arrestata per borseggio, e allora
cade l’accusa nei suoi confronti. Se la domanda ‘chi è il piromane
dell’arcipelago?’ è il filo conduttore della detective story, l’altra domanda,
che si pone Welin (e ognuno di noi potrebbe rivolgerla a se stesso), è esistenziale- ‘chi sono io in realtà? Sono
quello che gli altri conoscono? E che cosa ho fatto della mia vita?’- ed è il
cuore del romanzo, un libro sulla solitudine che- lo si avverte in ogni pagina- è stato scritto
da un uomo che sente la morte alitargli sul collo (usa proprio questa frase,
Mankell, parlando di un altro personaggio, un poco ipocondriaco). Welin ha
settant’anni, incomincia ad osservare di essere sempre il più vecchio dovunque
vada, il pensiero di essere sulla linea di confine è inevitabile. Muoiono
parecchie persone nell’arcipelago, e non sono le morti violente con cui ha a
che fare il commissario Wallander. Questa è gente che muore perché è arrivata
la loro ora, di infarto o per un ictus. E Welin si misura la pressione e
controlla il battito cardiaco. E ricorda. Un ragazzo a cui ha dovuto annunciare
che aveva un tumore (e pare proprio il tumore che ha colpito lo stesso
Mankell), la ragazza che aspettava un figlio da lui e lui ha fatto abortire, la
sua ‘prima volta’, suo padre (un cameriere che riusciva sempre a farsi
licenziare), i nonni.
Non è solo la cupezza della vecchiaia e di
quello che essa porta con sé a pesare su Fredrik Welin. Non è un uomo
simpatico, Welin. Ha trattato male molte persone, l’acqua gelata in cui si
immerge ogni mattina è fredda quanto il suo cuore. Ma è onesto con se stesso e,
arrivato alla resa dei conti, non si nasconde nulla. E tuttavia, valutando le
sue prospettive di esistenza futura, c’è una nuova presenza che gli scalda
l’anima- la bimba appena nata di Louise che, piccola com’è, in incubatrice,
aggrappata alla vita per un soffio, è la promessa di un futuro in cui lui non
ci sarà più ma ci sarà qualcosa di lui in lei.
E’ la maniera del nostro Mankell di dirci
addio. Non c’è più ma ci sarà per noi dentro i suoi libri.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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