Voci da mondi diversi. Area germanica
cento sfumature di giallo
il libro ritrovato
Veit Heinichen, “I morti del Carso”
Ed. e/o, trad.Anita Raja, pagg. 340, Euro 15,00
Soffia la bora nera su Trieste,
vento e neve, l'atmosfera giusta per i pensieri cupi di Proteo Laurenti,
ispettore capo della polizia. La moglie lo ha lasciato e lui si sente perso, in
più scopre che suo figlio frequenta un bar che è il luogo d'incontro dei
naziskin. Una telefonata anonima gli suggerisce di andare a Contovello, un
paesino arroccato dietro Trieste. Proteo arriva quando già una bomba è esplosa,
distruggendo una casa: nessuno è sopravvissuto dei Gubian, la famiglia che vi
abitava. Eppure nessuno in paese ha qualcosa da dire su Manlio Gubian. Un altro
uomo muore in mare, un incidente. Ma che ci faceva fuori, con quel mare, il
peschereccio di Ugo Marasi? Anche il padre di Manlio Gubian fa il pescatore,
anche lui è istriano, come Marasi, ma è rimasto a Pola senza seguire l'esodo
forzato degli altri italiani dopo che Tito prese il governo nel '45.
Vecchi
rancori, desiderio di vendetta, storie del passato mai dimenticato, storie di
contrabbando di pesce e altro, un altro morto trovato crocefisso a
un'impalcatura fuori da una foiba. Almeno questo morto ha un nome, a differenza
di tutti quegli altri, tedeschi, sloveni, fascisti, comunisti, non si sa
neppure quanti, finiti nelle foibe. Lo scirocco ha preso il posto della bora,
Proteo ha provato a corteggiare la bella donna che è arrivata da Pola come
sostituto Procuratore, suo figlio è finito in prigione, la sua casa è un cumulo
di immondizie, ma l'assassino viene fermato.
L'autore de "I morti del
Carso" (edizione e/o), questo bel noir che scava in uno dei tanti buchi
neri della storia italiana, è Veit Heinichen, scrittore e giornalista tedesco
che vive da molti anni a Trieste, dove Stilos lo ha intervistato, mentre soffia
un vento che rovescia gli ombrelloni dei caffè della piazza e che ci porta a
parlare subito proprio della bora.
Che cosa è la bora nera?
La bora pulisce il cielo e ci porta il
sole. Quella di oggi è una bora atipica perché è fuori stagione. E’ un vento
che nasce nella Pannonia e, dopo essere passato sopra l’altopiano del Carso,
che può essere freddissimo, arriva sopra il mare che è caldo, da qui la
violenza. Non è una tempesta costante, ci possono essere colpi di vento che
raggiungono i 170 km. all’ora, capaci di far uscire i treni dai binari. Io
adoro le forze della natura e la bora mi piace moltissimo. E poi, raramente,
c’è la bora nera o scura, con nevicate, ghiaccio e il mare che sbatte con
violenza contro i moli. La gente cambia con la bora, diventa nervosa, bestemmia.
Tutti si ricordano le annate speciali della bora. Quando c’è la bora nera
l’intera città cambia, il traffico è paralizzato. E’ come se ci fosse un
piumino sopra la città, cambiano anche i rumori. All’inizio può sembrare anche
una festa, non si può andare a lavorare e la gente si ritrova nei bar, c’è
allegria per questa vacanza non prevista.
Uno scrittore tedesco
che scrive in tedesco, vive a Trieste e
ha scritto un noir ambientato a Trieste. Sembra strano, ma forse, pensando alla
storia di Trieste, non lo è.
Sono nato nel Sud Ovest
della Germania, vicino al confine tra Francia e Svizzera, sono un figlio di
confine. Sono convinto che la gente che vive vicino ai confini è diversa,
conosce i contrasti e i confronti con le altre lingue. La cittadina in cui
abitavo era la provincia in cui non si muove mai niente. Ho studiato economia a
Stoccarda, ho lavorato alla Mercedes-Benz, ho fatto il libraio, ho lavorato per
una piccola casa editrice di Zurigo, ma la vita in Svizzera non era possibile-
tutto troppo ordinato, troppo pulito. Dopo essere stato dirigente della Fischer
Verlag, ho fondato una casa editrice, la Berlin Verlag. Sono venuto per la
prima volta a Trieste nel 1980, perché mi incuriosiva questa città. Mi
domandavo che cosa si nascondesse dietro questa città che è un mito, la città
degli scrittori. Sono ritornato un paio di anni dopo, e, come succede, conosci
delle persone e torni sempre più spesso. Nel ’97 ho comperato una casa e nel
’99 mi sono trasferito a vivere qui: è come se nella mia vita ci fosse stato un
cartello segnaletico che puntava verso Trieste. Quando ho iniziato a scrivere
non potevo non scrivere di Trieste. Il mio legame con la città è fortissimo,
forse perché sono un figlio di confine e Trieste è la città dei confini, dei
contrasti, dei ponti tra il mondo Mediterraneo e il mondo del Nord, tra i
Balcani e l’Occidente, tra il mare e la montagna, fondata sulla presenza di 90
etnie diverse. Se è vero che ogni luogo ha la sua nevrosi, mi pare ci sia
un’alta compatibilità tra la mia nevrosi personale e quella di Trieste: io mi
sento a casa qui e non sono neppure visto più come uno straniero.
Questo è il suo primo
romanzo tradotto in italiano. Che cos’altro ha scritto? E perché ha scelto il
genere noir?
Alla fine degli anni ’80
ho scritto 5 romanzi brevi a quattro mani, con lo pseudonimo di Viola Schatten.
Erano dei gialli con una detective donna che hanno fatto scandalo perché, ad
esempio, abbiamo scritto che un esponente del partito social democratico aveva
fatto parte della Stasi e la persona che si è riconosciuta nella descrizione ci
ha fatto causa ma, naturalmente, ha perso. E,
quattro anni dopo, negli archivi della Stasi si è scoperto che era tutto
vero. Penso che il noir sia il mezzo più adatto per descrivere la società
moderna. Basta sfogliare un giornale per vedere che tipo di notizie riporta,
fondi neri in politica, falso in bilancio nell’economia, evasione fiscale,
plagio nella cultura, doping nello sport. Il contesto sociale è cambiato negli
ultimi decenni, ci sono nuovi delitti, immigrazione di clandestini, il
fatturato del traffico mondiale di uomini ha superato quello della droga, e poi
c’è il traffico d’organi che è un fenomeno provocato dall’avanzamento della
tecnologia. Il delitto accompagna il progresso sociale e viceversa. E il giallo
è il mezzo di trasporto ideale per raccontare tutti questi punti che bruciano.
Parliamo di Proteo
Laurenti, l’ispettore de “I Morti del Carso”. So che ne sapremo di più dopo
aver letto il romanzo precedente in cui è pure protagonista. Ma ci può dire
qualcosa su questo personaggio così simpatico che è, come Lei, uno “straniero”
a Trieste?
Proteo è nato a Salerno,
in una famiglia che non sapeva neppure dove fosse Trieste, una famiglia non
ricca, piccolo borghese. Avevano scelto per lui un nome della mitologia greca e
non sapevano che sarebbe finito a vivere a Trieste dove, nei sotterranei del
Carso, da cento milioni di anni vive un animaletto bianco lungo 30 cm., come
una grossa lucertola bianca senza occhi, con dei piedini inutili, il cui nome
scientifico è Proteus anguinus laurentii. Ho rubato il nome da lì e qui si ride
quando si sente questo nome che è anche una metafora: il lavoro di Proteo è
scavare sotto la superficie per trovare la verità. Proteo ha scelto la carriera
del poliziotto e arriva a Trieste a 23 anni (ne “I morti del Carso” ne ha 47), corteggia
la moglie, che è di qui, per due anni prima di sposarla. Ormai è diventato
triestino, anche se vede le cose
dall’esterno. Proteo è come me, viene da fuori, può fare domande che quelli del
posto non possono fare perché accettano quelli che sono i tabù della città.
Trieste viene fuori
dal suo libro come una città tormentata, piena di fantasmi del passato, di
problemi etnici e politici.
Trieste è una città
complessa, piena di problemi, anche se ci si limita solo alla storia più
recente. Sono successe tante cose con il fascismo, mai completamente elaborate.
Siamo in una città di frontiera vicino all’ex-cortina di ferro, anticomunista
senza essere fascista. Come dice lo psicanalista svizzero Paul Parin, “Trieste
è una città italiana su territorio sloveno con storia austriaca, ma la sua
cultura non è né slovena né austriaca né italiana ma è una cultura provinciale
e nello stesso tempo internazionale.” I fascisti avevano l’obiettivo di
distruggere tutto quello che non era italiano. La popolazione più forte era
quella slovena, prima della prima guerra mondiale vivevano più sloveni a
Trieste che a Lubiana. I fascisti hanno dato fuoco a tutte le istituzioni
slovene e croate, hanno vietato di parlare in quelle lingue, hanno vietato le Messe
in sloveno, i vescovi sloveni sono stati sostituiti con vescovi italiani, le
scuole slovene sono state chiuse. I fascisti hanno provocato una violenza
fortissima in questa città dove, prima, la convivenza era normale. A Trieste si
festeggiano tre liberazioni: nel maggio 1945 dai tedeschi, nel giugno 1945 dai
titini e nel 1954 per i fascisti c’è stata la terza liberazione, quando la
città è tornata italiana dopo essere stato Territorio Libero di Trieste. Qui lo
sloveno triestino parla malissimo dell’Italia e parla malissimo della Slovenia
e il triestino italiano parla malissimo della Slovenia ma anche dell’Italia, e
però sono tutti triestini. Per il 98% della popolazione non ha importanza se
uno è sloveno o italiano. Comunque penso che quello che importa è rendersi
conto di quanto è successo, abbiamo la responsabilità di imparare queste cose e
far in modo che non si ripetano più. Sono anche convinto che non si debba
elaborare sempre tutto, guarisce anche quello che si dimentica.
E poi c’è il problema
del contrabbando, come in tutte le zone di frontiera.
Trieste è una città
portuale con tanti confini: è il prototipo del contrabbando. Si contrabbanda di
tutto, adesso si parla tanto dei clandestini, ma è sbagliato dire che non ci
fosse traffico di uomini anche prima del 1989. Conosco gente sul Carso che dice:
“siamo sempre stati passeur”. Durante la guerra fredda quelli che sfuggivano al
comunismo erano i benvenuti. Una volta armi e sigarette arrivavano dal mare,
adesso arrivano anche capesante, datteri e mitili. Due anni fa hanno preso un
camion con bare economiche provenienti dall’Ucraina e destinate al mercato
tedesco. Il nuovo fattore è l’importo dei bambini: i più piccoli per
l’adozione, quelli più grandi vengono costretti ad elemosinare, o a lavorare in
campagna o nelle fabbriche, oppure sono destinati alla prostituzione. Un’altra
parte sparisce nella speculazione per il traffico d’organi.
Ho l’impressione che
a Trieste si parli delle foibe e meno della risiera di San Sabba.
E’ perché chi parla delle
foibe urla. I politici di estrema destra sono dei falsificatori della storia,
ma se qualcuno grida, non significa che sia la maggioranza. A Trieste il
problema è che non puoi parlare della risiera senza parlare delle foibe, come
se ci fosse un atteggiamento del tipo, “i nostri morti sono più preziosi dei
vostri”. I revisionisti cercano di scusare i delitti fascisti con quello che è
successo con i titini nelle foibe. E’ fondamentale parlare delle foibe, anche
la sinistra europea è responsabile di atti di ferocia, ma dobbiamo ricordare
sia quanto è avvenuto lì sia quanto è avvenuto nella risiera. Le foibe non
riguardano solo gli italiani, si è trattato di una decisione fra due gruppi
politici e non di epurazione etnica. Noi avremo un futuro solo se siamo in
grado di differenziare e di non generalizzare.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
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