Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
romanzo 'romanzo'
il libro ritrovato
INTERVISTA A JULIAN FELLOWES, autore di “Snob”
Destino singolare, quello della parola snob e certamente William Thackeray, che
le diede un valore letterario ne “Il libro degli snob”, non poteva prevedere
che sarebbe stata adottata da tutte le lingue europee. Nel gergo studentesco di Cambridge snob
indicava soltanto chi cerca di emulare i comportamenti degli aristocratici
disprezzando tutto quello che ha la parvenza di essere inferiore, poi il significato
si estese ad un generico atteggiamento
di sufficienza verso le classi basse.
C’è un poco di entrambi i significati nel libro “Snob” (Ed. Neri Pozza, pagg.
349, Euro 16,50), opera prima di Julian
Fellowes, noto come lo sceneggiatore che ha vinto l’Oscar per “Gosford
Park”, attore coprotagonista nei film “Il danno” e “Shadowlands”.
Perché è snob Edith che, sospinta anche dalle
ambizioni materne, sposa Lord Charles Broughton, senza dare importanza al fatto
che lui sia così noioso e sessualmente tiepido- la prospettiva di abitare in
una magione che apre le porte ai visitatori, di essere presentata a corte, di
fare la nobile castellana che distribuisce sorrisi, è splendida e
irresistibile. Ma è snob anche la
formidabile Lady Uckfield che deve fare buon viso a cattiva sorte davanti
alla scelta del figlio, o tutta la cerchia dei loro amici altolocati che sembrano
parlare in codice, usando sciocchi nomignoli a sottolineare l’intimità con i
loro pari, obbedendo a norme di comportamento che escludono implacabilmente
chiunque non sia dei loro. Edith viene accettata anche se con diffidenza, perché
è bellissima e Charles la adora. Ma, quando
Edith si stanca della campagna, della caccia, dei comitati di beneficenza,
dei suoceri, della compagnia stolidamente fedele del marito, e segue a Londra un fascinoso attore,
immediatamente tutte le porte si chiudono dietro di lei. La storia è raccontata da un narratore esterno, un
attore amico di Edith che diventa poi il confidente di Charles, in un ruolo di
osservatore imparziale che ricorda quello di Nick Carraway de “Il grande Gatsby”.
A lui, che, per famiglia ed educazione, si muove con disinvoltura in entrambi
gli ambienti, il compito di fare da tramite
tra i due sposi- Edith che si accorgerà di aver cambiato in peggio una volta
che si attenua la furia sessuale, e Charles che, con commovente consapevolezza
dei propri limiti, è pronto a riprendersela indietro. Non potevano mancare, in
un romanzo di ambientazione così britannica, i riferimenti ai grandi scrittori del passato, da Thackeray a Jane
Austen, da Huxley a Waugh, nella creazione di alcuni personaggi (Edith ha
qualcosa di Becky Sharp, Charles ricorda il protagonista di “Una manciata di
polvere”, la madre di Edith e Lady Uckfield assomigliano, in meglio, a Mrs.
Bennett e a Lady Catherine in “Orgoglio e pregiudizio”), nel riadattare frasi
famose, nel tono cinico e graffiante, sempre pieno di humour, di chi osserva senza approvare, ma nemmeno
disapprovare- così va il mondo (britannico). Stilos ha intervistato Julian
Fellowes.
Lei è un attore e uno sceneggiatore famoso: come è nato questo romanzo?
L’aveva già in mente quando scriveva la sceneggiatura di “Gosford Park”?
Avevo scritto un abbozzo
di romanzo, prima di “Gosford Park”. Poi c’è stato il successo del film e
l’editore di una famosa casa editrice mi ha cercato chiedendomi se mi
interessava scrivere un libro. E così ho ripreso in mano quel mio
dattiloscritto, ci ho lavorato molto sopra, praticamente l’ho riscritto tutto.
E’ molto diverso scrivere un libro dallo scrivere un copione. Quando scrivi un
copione, scrivi per il produttore, per il regista, poi ci sono le prove nello
studio, ogni volta ti cambiano delle cose. Mi attraeva molto l’idea di scrivere
un testo solo per un editore. In un libro si sente soprattutto la voce dello
scrittore, in un copione questa voce è solo una parte. Mi piaceva l’idea che si
sentisse la mia voce nel libro, e, dopo, è stata piacevole anche l’esperienza
inaspettata del successo.
Non possiamo fare a meno di ricordare l’ambientazione di “Gosford Park”
leggendo “Snob”, anche se l’angolazione del punto di vista è del tutto
differente.
“Gosford Park” è
ambientato in un periodo in cui le classi alte erano inconsapevoli della fine
che si avvicinava per loro, mentre i servitori sembravano avere un sentore di
questa fine. Nel film i servitori pensano a come sarà la loro vita in futuro, è
come se sapessero che sette anni dopo ci sarebbe stata la guerra e il mondo non
sarebbe più stato lo stesso. E allora c’è qualcosa di ironico nella sicurezza
che sfoggiano gli aristocratici del piano di sopra. Nel film, ad un certo
punto, Lady Sylvia dice che forse chiuderà la casa, perché è diventato troppo
difficile mandarla avanti. Le classi alte si stancano di quel tipo di vita, di cercare
servitori, cambiarsi d’abito per cena, si rilassano come il resto del mondo.
“Snob” è sui sopravvissuti di quel mondo aristocratico. Dopo gli anni ‘60 gli
aristocratici finiscono di far parte della classe governante ed escono dalla vita
pubblica, la gente sa che esistono ancora solo attraverso articoli occasionali
sui giornali che parlano di matrimoni o ricevimenti, gli aristocratici non
fanno più politica e non hanno più una vita pubblica. Sono diventati un gruppo
che doveva tenere giù la testa in un secolo che non approvava, una specie di
società segreta. E “Snob” è intorno a questa società segreta che esiste ancora.
Ho attinto dalla vita vera per scrivere “Snob” e sono stato anche un poco
punito per averlo fatto. Mi è stato chiesto se abbia ancora degli amici- in
realtà quelli che hanno creduto di riconoscersi nei personaggi dapprima se la
sono presa, poi si sono sentiti lusingati nel ritrovarsi nelle pagine del
libro.
E, a proposito di “Gosford Park”, non ha trovato strano, che fosse una
specie di sfida per un regista americano decidere di girare quel film?
In un certo senso sì,
ma, d’altra parte, non era possibile girare quel film con un regista
britannico. I britannici si sentono sempre un po’ complessati nei confronti
delle classi alte. Altman provava l’interesse di un antropologo per gli
aristocratici. Non voleva dimostrare niente ed io ero invitato sul set per
controllare che tutto fosse giusto come doveva essere. Un regista britannico
non lo avrebbe mai fatto, si sarebbe irritato, non avrebbe mai voluto mostrare
di non sapere di fronte a me che sapevo, sarebbe stato difficile correggerlo.
Ma un americano non era tenuto a sapere quelle cose, Altman si sforzava di
essere il più accurato e il più efficace possibile. Ecco perché ha funzionato.
“Gosford Park” è ambientato negli anni ‘30 e “Snob” ai nostri tempi: l’idea
è dell’immutabilità dei comportamenti dell’aristocrazia britannica che sembra
essere salda come una roccia.
Penso che gli
aristocratici capiscano di dover resistere davanti ad un mondo moderno i cui
valori sono lontani dai loro. C’è qualcosa di contraddittorio in una società
che è per lo più selezionata per nascita e la società meritocratica moderna- non
possono coesistere. Gli anni ‘60 hanno cambiato il mondo in una maniera ostile
ai valori dell’aristocrazia. Adesso però ci si comincia a fare domande sul
successo dei valori moderni, viviamo in un periodo caotico e pieno di
incertezze, di aumento di criminalità e mancanza di sicurezza personale. Il
mondo moderno, almeno nei paesi occidentali, non crede più nella selezione per
nascita, “come” uno nasce ha un ruolo secondario nella selezione ma è connesso
con l’aristocrazia. In Gran Bretagna dagli anni ‘60 non vengono più concessi
titoli ereditari e questa è la sentenza di morte per l’aristocrazia. Ma c’è
qualcosa di ammirevole nel fatto che le classi alte aderiscano ancora ai valori
di un mondo più vecchio e più lento.
Dopo tutto, come si dice nel suo libro, la Gran Bretagna ha avuto una sola
rivoluzione che è durata poco tempo. Che cosa significa questo, secondo Lei,
per quello che riguarda il carattere dei britannici?
Penso che i Britannici
siano molto pragmatici, in complesso a loro non piacciono l’insicurezza e la
ribellione. Il punto forte dell’aristocrazia britannica è di aver accettato e
cercato di sposare persone dei ceti alti con soldi o bellezza. Abbiamo sempre
avuto un’ alta borghesia non titolata ed è sempre stato facile per il self-made
man essere assorbito in questa alta borghesia non titolata- era una terra di
mezzo in cui si riusciva ad entrare facilmente. Questa era la caratteristica
dell’aristocrazia: la sua mobilità, una qualità per cui venivamo disprezzati
nell’800 dal resto dell’Europa, ma che per noi ha significato che il sistema
poteva durare di più.
Il suo narratore racconta la storia da un punto di vista avvantaggiato
perché sembra trovarsi a suo agio con entrambi i mondi: è Lei il narratore?
In un certo senso sì.
Volevo che il narratore non avesse un’aria minacciosa. Volevo che si trovasse a
suo agio con l’aristocrazia, ma che lui stesso non fosse troppo “in alto”, e
infatti è un attore non di successo, non ha molti soldi. Doveva essere una
specie di ponte tra i personaggi, una guida che non incutesse soggezione ai
lettori. Il lettore non conosce queste persone e lui gliele deve spiegare-
conduce il lettore in maniera gentile.
Il narratore sembra osservare divertito il comportamento di questi
aristocratici: non approva e neppure disapprova.
Questo è il mio
atteggiamento. Alla mia età non più giovane, sono convinto che non ci sia un
tipo di vita più felice delle altre. Penso che nessuno debba essere invidiato,
nessun tipo di vita è una soluzione. Tutti hanno una vita complicata. Ci sono
vite individuali, indipendentemente dalla classe sociale. Io non odio ma
neppure venero i Broughton. Nel libro il personaggio di Lady Uckfield è quello
della persona intelligente con cui il narratore entra in sintonia, perché gioca
bene le sue carte, fa del suo meglio della situazione in cui si trova. Il
libro, più che essere un libro su una classe sociale, è un libro sulla scelta:
ognuno di noi fa una scelta e deve vivere con la scelta che ha fatto. In genere
si tende ad attribuire agli altri la colpa di quanto ci accade, ma è contro la
mia filosofia della vita. Questa è la parte più importante del crescere:
prendersi le responsabilità delle proprie scelte.
Forse per questo Charles è un personaggio così amabile e simpatico. Al
contrario di Edith, lui tiene fede alle proprie scelte. Alla fine ci dispiace
per lui, meritava di più.
Ho creato di proposito
così il personaggio di Charles, un uomo grigio, prevedibile, non molto
intelligente e non interessante. Andando avanti, però, anche chi non approva
l’aristocrazia sente simpatia per Charles che non cambia, non è diverso da come
si è presentato, ma è Edith che viene meno al patto che ha stretto. Ho fatto in
modo che il lettore simpatizzasse con chi non avrebbe simpatizzato nella vita
reale.
Proseguirà tutte le sue carriere, come attore, sceneggiatore e
scrittore?
Ci sono persone che
pianificano la loro vita. La mia vita è stata strana, fino ai quarant’anni sono
stato un attore di medio successo, non certamente uno di quelli che fanno
fermare il traffico per strada, e poi mi si sono aperte davanti tante strade.
Mi piacerebbe provarle tutte. Quando il successo arriva tardi, lo prendi meno
sul serio, sai che finirà. Quando succede da giovane, ti senti un dio, ma
quando arriva tardi, sai solo che sei fortunato, che stai godendoti cinque
minuti al sole, ma sai anche che non durerà per sempre. Mi piace pensare che continuerò
a scrivere finché sarò vecchio, penso che Hollywood mi stancherà molto prima.
C’è qualcosa di inebriante nel sentire la propria voce in un libro.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
i personaggi dello sceneggiato Downton Abbey |
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