eventi
incroci di civiltà
Daniel Mendelsohn, “Gli scomparsi”
Ed. Neri Pozza, trad. Giuseppe
Costigliola, pagg. 711, Euro 20,00
Titolo originale, The Lost. A Search for Six of Six Million
“Si vuole sempre ricostruire come
sono morti, e non come sono
vissuti”.
Immerso nei suoi pensieri, Marek annuì e
continuò: “La gente non crede che sia importante sapere se un uomo era felice o
meno. Invece lo è. Perché dopo l’Olocausto scomparve tutto un
mondo.”
“Gli scomparsi”: era difficile mantenere la
traduzione letterale del titolo originale, “The Lost. A search for six of six
million”, così esplicativo con quei numeri che si ripetono in maniera strana,
il più piccolo vicino a quello inimmaginabile nella sua grandezza, così
ampiamente, così dolorosamente preciso nel definire ‘perdute’ le sei persone di
cui lo scrittore va in cerca. Perdute, che sono andate perse, e non scomparse.
Così come, insieme a loro, è andato perso tutto un mondo e la sua civiltà e la
sua cultura. Finanche, in parte, la sua lingua. Così come è andato perso anche quello che sarebbe potuto essere di quel mondo
e di quelle persone- i loro pensieri, i loro successi e i loro fallimenti, i
loro sentimenti.
“Gli scomparsi”
di Daniel Mendelsohn è un libro straordinario- è più di un semplice romanzo, è
la storia di una famiglia, la storia di un intero paese, Bolechow, in Polonia,
la storia di chi è sopravvissuto agli orrori del nazismo e cerca di trovare la
forza di raccontarlo. Ma è anche un libro di viaggi- nel tempo e nella memoria
e da un paese all’altro, da un continente all’altro, America, Europa,
Australia, Medio Oriente, sulla traccia dei sei componenti scomparsi della
famiglia Jäger: lo zio Shmiel, sua moglie e le quattro bellissime figlie.
Tutto inizia con qualcosa che è tipico di tutte le
famiglie, lo scrutare i lineamenti di un bambino cercando di individuare le
somiglianze. E Daniel Mendelsohn assomiglia a Shmiel, il fratello del nonno
materno, quello che aveva una macelleria a Bolechow prima della guerra. I
parenti abbassavano la voce, quando parlavano di zio Shmiel, non si sapeva che
fine avesse fatto- si diceva che si fosse nascosto con una delle figlie, ma che
fosse stato tradito. E che una, o forse due delle figlie si fossero unite ai
partigiani nella foresta. Ma che ne era stato della moglie e delle altre due
figlie? Persino i nomi e l’anno di nascita delle quattro ragazze non erano certi.
Daniel è ancora un ragazzino quando incomincia a ricostruire l’albero
genealogico della famiglia della mamma, spinto dall’affetto e dal fascino che
esercita su di lui nonno Abraham- una delle figure più imponenti e
indimenticabili del libro. Da nonno Abraham Daniel dice di aver imparato l’arte
del raccontare, srotolando il filo di una storia, facendolo intrecciare ad
altri fili che conducono ad altre storie, per poi riunirli tutti insieme alla
fine. Come scatole cinesi incastrate una dentro l’altra, di cui l’ultima
contiene una rivelazione. Ma Daniel riconosce pure il suo debito a Proust, e a
Sebald- anche Daniel inserisce nel libro delle fotografie, parte integrante della
narrazione nonché supporto visivo dell’immaginazione. Immagini in bianco e nero
che parlano di un passato lontano, abiti di un tempo, visi di uomini, donne,
fanciulle di cui lui cerca di indovinare il carattere dallo sguardo, o dal
sorriso, o dalla maniera di acconciarsi i capelli.
Quando Daniel
inizia la sua ricerca, non sa che questa lo porterà così lontano, che non si
fermerà a Bolechow, che non sarà sufficiente un solo viaggio, che, come nel
gioco del domino, ogni tessera sarà accostata da un’altra, che ogni persona
contattata ne farà il nome di un’altra. E che ognuno racconterà degli Jäger,
magari solo di zio Shmiel, o di una delle figlie, e poi parlerà di sé e di
quello che è stato- hic sunt lacrimae
rerum, cita Mendelsohn, studioso dei classici, sono le lacrime delle cose e toccano le menti degli uomini. Quanto
dolore in quei racconti. E il viaggio di Daniel diventa molto di più del volo
in aereo per raggiungere i testimoni- è un viaggio di conoscenza di sé e degli
altri, un percorso che lo porta ad avvicinarsi alla sua identità ebraica oltre
che al fratello che lo accompagna nei viaggi.
Il racconto della ricerca e quello della persecuzione
nazista nel romanzo di Mendelsohn sono spezzati da una riflessione parallela
(interessante e affascinante quanto l’altra parte del libro) su testi della
Bibbia, seguendo due filoni: la distruzione di quanto Dio aveva creato, durante
il diluvio e poi quando punì gli abitanti di Sodoma e Gomorra (e, come per
l’Olocausto, è la sopravvivenza di pochi che ci fa comprendere la portata
dell’annientamento), e la rivalità tra fratelli, tema ricorrente nel Vecchio
Testamento ad iniziare dall’omicidio di Caino- si era reso conto nonno Abraham che
il non inviare a suo fratello i soldi per emigrare significava decretarne la
morte?
“Gli scomparsi”
non è un ennesimo libro testimonianza sullo sterminio degli ebrei- la morte è
sempre presente nel libro, e non potrebbe essere diversamente, ma lo è anche la
vita. Perché Daniel Mendelsohn è riuscito a ricreare in queste pagine la vita
di quelli che sono andati perduti. E andando via da Bolechow, Daniel non si è
girato indietro come ha fatto la moglie di Lot, non si è trasformato in una
statua immobile e muta. La vita continua per ricordare Bolechow che è
“scomparsa per sempre”.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
lo scrittore Daniel Mendelsohn
Nessun commento:
Posta un commento