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Voci da mondi diversi. Asia
Kader Abdolah, “La casa della moschea”
Ed. Iperborea, trad. Elisabetta
Svaluto Moreolo, pagg. 450, Euro 18,50
C'è un’immagine che continua a tormentarci,
quando chiudiamo il libro dello scrittore iraniano emigrato in Olanda Kader
Abdolah. E' quella del padre che gira con il cadavere del figlio nel furgoncino,
in cerca di una tomba per lui. Perché il giovane Javad era tra gli studenti
morti nella dura repressione operata nel Villaggio Rosso da parte del governo
dell'ayatollah Khomeini. Lui, il padre, Aga Jan, non sapeva neppure che suo
figlio si trovasse là, ed ora si ritrova con il suo corpo, senza sapere dove
seppellirlo, perché nessun villaggio- neppure quelli in cui Aga Jan pensava
avere degli amici- osa sfidare le disposizioni: nessun rifugio per i ribelli,
né da vivi né da morti. E noi pensiamo ad Antigone che sfida il tiranno per
dare una sepoltura al fratello Polinice e a come- attraverso i secoli e in
luoghi e circostanze diversi- la pietas umana rimanga sempre la stessa.
“La casa della moschea” è la storia di una
famiglia, e gli eventi storici che la spezzano in due, distruggendo per sempre
serenità e pace, alterano anche lo stile narrativo del romanzo: dall'inizio
quasi sognante, in una romantica atmosfera di idillio famigliare, attraverso
un'epoca transitoria di tumulti che culminano con la fuga dello scià
all'estero, si passa a pagine quasi concitate che hanno qualcosa di
giornalistico nel narrare l'incalzare degli avvenimenti. Il ritorno di
Khomeini, gli arresti nel cuore della notte, le torture, i frettolosi tribunali
speciali, la giustizia sommaria che sa di esecuzione.
Una famiglia significa tanti personaggi,
proprio come l' albero con tanti rami che è disegnato nelle prime pagine.
Ognuno con i suoi tratti, il fin troppo devoto imam maniaco della pulizia sostituito
poi dal giovane figlio oppiomane, Muezzin il cieco che modella la creta e
riempie di vasi il cortile, la docile Seddiq che va in sposa all'uomo che
diventerà il giustiziere maledetto, il bambino deforme soprannominato Lucertola,
la vedova dell'imam che scopre tardivamente il sesso e l'amore. E ancora il
poeta e il fotografo- due occhi diversi sulla realtà. C'è anche un corvo che
occupa a buon diritto un posto nella famiglia, perché da sempre è stato lì ad
annunciare le visite con il suo gracchiare. E sopra tutti, prima di tutti, il
mercante di tappeti Aga Jan, l'uomo che si impone con la sua calma, il suo
equilibrio, la sua saggezza nel tentativo continuo di conciliazione. E forse è
per quello che ci sembra ancora più immeritata la pena che gli è riservata alla
fine, con la perdita del figlio.
Con questa storia di famiglia che
rappresenta la storia dell'intero paese, con le discussioni quotidiane che
osservano l'ingerenza americana in Iran e preparano alla feroce reazione che
seguirà, a soffocare la spinta occidentalizzante, Kader Abdolah ritorna a
parlare della terra che ha lasciato- è lui la voce dell'esule Shahbal che
scrive allo zio, alla fine del romanzo, con parole di nostalgia: Mio carissimo zio, sogno così spesso la
nostra casa e tutti voi che in realtà non è qui che vivo, ma lì. E ci
regala un libro molto bello, sospeso tra l'elegia e il realismo, tra la nebbia
soffusa dei ricordi e l'accecante luce di un riflettore che illumina il buio
del fondamentalismo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
lo scrittore Kader Abdolah
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