Voci da mondi diversi. Penisola iberica
Javier Marías, “Il tuo volto domani”
Ed. Einaudi, trad. Glauco Felici, pagg. 372, Euro 18,80
Ha un effetto come di lampo e di tuono, ogni nuovo romanzo
di Javier Marías, illuminando la
scena letteraria e sovrastando ogni altra voce. Eppure, la sua voce ha un tono
sommesso, incantatore, ipnotico, con le lunghe frasi che si srotolano per
riavvolgersi su se stesse, la malia delle parole cercate, ripetute, rivisitate
in sinonimi e contrari, che lanciano un’idea, un pensiero, e poi scavano,
approfondiscono, ironizzano, ti obbligano a riflettere. Un libro sulla parola e
sul silenzio, questo “Febbre e Lancia”, il primo di una trilogia che ha ancora
una volta un titolo shakespeariano, “Il tuo volto domani”. Incomincia dicendo
“Non bisognerebbe mai raccontare niente”, perché raccontare significa concedere
fiducia, e quanti si meritano questa fiducia? Ma poi è quello che il narratore fa-
raccontare, in un lungo monologo che è tale anche quando pare un dialogo.
E’ lo
stesso narratore di “Tutte le anime”, ma con un nome questa volta. Più di un
nome, con parecchie varianti del suo (ma è così anche per gli altri personaggi:
non è forse un eccesso di fiducia pericoloso, farsi conoscere con il vero
nome?): solo sua madre lo ha sempre chiamato Jacques, sua moglie Luisa lo chiama
Jaime o con il cognome Deza, in Inghilterra diventa Jack, o Yago, in Spagna
Jaime, o Jacobo, o Diego, o Santiago. Jaime è tornato in Inghilterra, dove
aveva insegnato a Oxford, perché si sta separando dalla moglie- un primo
accenno ad un altro tema del libro, quello del tradimento.
Il tempo di questa
storia, che una storia non è, è un lungo fine settimana, ad un party offerto da
Sir Peter Wheeler, un vecchio professore che già abbiamo conosciuto in “Tutte
le anime”. Ma il tempo di Javier Marías è un tempo proustiano o joyciano, che è
poi quello di Laurence Sterne, da cui Marías ha imparato anche il metodo
narrativo, di procedere con digressioni, le più affascinanti digressioni della
letteratura contemporanea. Non c’è distanza tra presente, passato e futuro. Nel
presente al linguista e traduttore Jaime viene offerto il lavoro di “interprete
di vite”, “traduttore di persone”, dei loro comportamenti e reazioni, possibili
gradi di lealtà e di viltà. Un lavoro per cui Jaime sembra avere una
disposizione particolare, che è poi quella che veniva richiesta dai sistemi di
spionaggio MI6 e MI5, la Military Intelligence dei servizi segreti interni ed
esterni, per cui hanno lavorato sia Wheeler sia il misterioso Mr. Tupra. Si
tratta di azzardarsi a parlare, ascoltando e interpretando gli altri,
raccontando quello che è un futuro probabile o soltanto possibile. Ed è a
questo interrogativo- come si può passare metà della propria vita con un amico
senza avvedersi di come potrebbe diventare, in certe circostanze? come si può
non accorgersi che qualcuno così vicino a noi ci tradirà? “come posso non
conoscere oggi il tuo volto domani”?- che si collegano gli episodi di storia
del passato avvenuti durante la guerra civile spagnola, la scomparsa del trotzkista
Andreu Nin, tradito dai comunisti, l’arresto del padre di Deza per una
delazione, la morte del fratello di sua madre, giustiziato senza colpa.
Il
pericolo della parola come tradimento e, d’altra parte, quello del silenzio
imposto, è al centro della lunga digressione di Wheeler sulla campagna del
“careless talk” in Inghilterra (il nostro “taci, il nemico ti ascolta”). Da qui
la reiterazione che suona come un mantra shakespeariano, “taci, taci e allora
salvati”, “taci, taci e allora salvami”. Ma il silenzio è solo dei morti. Non è
un romanzo di spionaggio, quello di Marías, anche se contiene un omaggio a Ian
Fleming citando delle pagine di “Dalla Russia con amore”, piuttosto un libro di
spie, in cui spiare non ha solo un’accezione negativa, ma anche il valore di
saper ascoltare. C’è un accenno di mystery nel romanzo, e qui il riferimento è
a Conan Doyle e anche a Henry James con cui Marías condivide pure la capacità
di caricare di significati ogni sorriso, ogni occhiata, ogni discorso. C’è, ad
esempio, una macchia di sangue sul pavimento di legno della casa di Wheeler,
una macchia che Deza cerca di cancellare e che non verrà mai spiegata e che
serve per la digressione della storia sull’amico Comendador; e c’è il mistero
della donna con il cane che segue Deza nella pioggia e che suona il suo
citofono alla fine, dicendo solo “sono io”. Ma c’è anche la storia tenuta in
sospeso e poi rivelata della moglie di Wheeler, e del segreto di Wheeler
stesso, fratello del Toby Rylands che è già stato “maestro” di Deza, uno il
doppio dell’altro, estraniati da un cognome diverso e poi riuniti da una scelta
comune.
Termina come è iniziato, “Febbre e Lancia” che feriscono e fanno
soffrire, con l’affermazione “In realtà non si dovrebbe raccontare mai niente”,
perché la vita non è raccontabile e noi moriamo quando ci rendiamo conto che il
nostro vissuto è stato annullato, e con quello i nostri ricordi irraccontabili.
la recensione è stata pubblicata sulla rivista "Stilos"
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