venerdì 30 ottobre 2015

Mischa Berlinski, “Ricerca sul campo” ed. 2011

                                Voci da mondi diversi. Stati Uniti d'America
                 Diaspora ebraica
                 il libro ritrovato

Mischa Berlinski, “Ricerca sul campo”
Ed. gran vía, trad. Francesca Frulla, pagg. 418, Euro 17,00

     
     Ho terminato di leggere “Ricerca sul campo” di Mischa Berlinski. Peccato. Mi sento privata di qualcosa. Avrei voluto andare avanti a leggere, anche se mi rendevo conto che tutto era stato detto.
“Ricerca sul campo” è un romanzo stupefacente. Perché è ricchissimo, di storie, di personaggi, di quesiti, di informazioni. Perché è insolito. Perché è esotico, capace di farci dimenticare che noi lettori non viviamo là, in Thailandia, il paese in cui il romanzo è ambientato. Perché è profondo e leggero, percorso da un umorismo gentile.
      Il libro è la narrazione di una duplice ‘ricerca sul campo’- quella del personaggio che ha lo stesso nome dello scrittore e quella della studiosa antropologa Martiya van der Leun. Mischa Berlinski fa ricerche su Martiya e Martiya sulla popolazione Dyalo che vive nel Nord della Thailandia.
E sono entrambe ricerche appassionanti: così come il romanzo è costruito, ci sembra di spalancare di continuo nuove porte che ci conducono in un ambiente dove incontriamo nuove persone, ognuna con una sua parte di storia che dovrebbe portarci a sapere che cosa è successo a Martiya, come è stato possibile che questa americana di origine olandese si sia suicidata in un carcere thailandese dove stava scontando una condanna per assassinio. Con estrema naturalezza la vicenda passa di continuo dal presente al passato, dal punto di vista di Mischa a quello di Martiya e a quello di chi l’ha conosciuta, dalla vita di Mischa- che ha accompagnato la sua compagna che ha accettato un incarico di insegnante a Chiang Mai e che, a poco a poco, viene preso dal ‘mal d’Oriente’ e diventa ossessionato dalla storia dell’antropologa- a quella di Martiya, arrivata nel villaggio sperduto di Dan Loi negli anni ‘70 pensando di fermarsi un paio di anni senza immaginare che non avrebbe più voluto andarsene, che sarebbe diventata ossessionata dalla cultura dei Dyalo. E dall’amore per un dyalo. Anzi, la parola giusta è quella francese che qualcuno usa parlando di Martiya al Berlinski personaggio del libro: Martiya era obsedée, che si può anche interpretare come ‘posseduta’ dagli spiriti del luogo.

     Nella nota finale l’autore ci dice che questo libro doveva essere una storia sulla conversione al cristianesimo dei Lisu della Thailandia del Nord: la popolazione Dyalo non esiste ma Berlinski deve aver sfruttato le sue conoscenze sui Lisu. Perché uno dei filoni di ricchezza di questo straordinario romanzo è costituito dalla storia dei Dyalo e dalla loro cultura, così come la registra Martiya che, quando arriva nel villaggio, non conosce una parola della loro lingua e deve confrontarsi di continuo con i divieti per non far arrabbiare gli spiriti, e così come viene raccontata dalla famiglia dei Walker, i missionari che da tre generazioni predicano il cristianesimo nel Nord della Thailandia. La storia della famiglia Walker  è una delle digressioni importanti del libro, non solo perché aggiunge dei tasselli alla nostra conoscenza dell’Est, ma anche  perché, alla fin fine, l’assassinio compiuto da Martiya è l’ultimo atto di un conflitto di culture, quasi il risultato di voler imporre la supremazia di Uno spirito su Molti spiriti- soprattutto sullo spirito del Riso, di vitale importanza per i Dyalo.
    
Quanto ai Dyalo- forse questo è il fascino principale del romanzo: Mischa Berlinski riesce a scrivere qualcosa che si avvicina ad un testo di antropologia senza mai risultare arido o noioso. Il villaggio, le capanne, gli abiti, le consuetudini, la vita sociale e privata dei Dyalo, le condizioni climatiche- tutto prende vita soprattutto attraverso gli occhi di Martiya e, quando Mischa incontra Tanti-Peti, che aveva ospitato Martiya finché lei proprio non ne poteva più di quella convivenza, gli sembra di averlo sempre conosciuto. Come avviene a noi. E così pure per gli altri indigeni, ognuno con il suo soprannome che lo identifica alla perfezione.
    “Ricerca sul campo” è uno di quei libri che mi fanno invidiare chi deve ancora leggerlo.
      

la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net






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