Voci da mondi diversi. Russia
guerra russo afghana
testimonianze
Svetlana Aleksjevich, “Ragazzi di zinco”
Ed. e/o, trad. Sergio Rapetti,
pagg. 316, Euro 16,00
Ho pensato alla nostra Oriana Fallaci,
leggendo “Ragazzi di zinco” di Svetlana Aleksjevich, la scrittrice bielorussa a
cui è appena stato conferito il premio
Nobel per la Letteratura 2015. Con Oriana Fallaci mi è parso che Svetlana
Aleksjevich condividesse il genere di scrittura, di giornalismo testimonianza, e il coraggio di raccontare l’altra faccia degli eventi, di tirare giù
un velo, di sfatare dei miti illusori.
Come i precedenti “La guerra non ha un
volto di donna” (del 1985, ancora inedito in Italia, verrà pubblicato da
Bompiani) e “Preghiera per Chernobyl” (pubblicato nel 2004 da e/o), anche
“Ragazzi di zinco” è un libro di voci.
Prendete in mano il libro e guardate la copertina, dice tutto. Con le parole di
uno dei giovani che raccontano la loro storia, ‘se guardi a lungo dentro
l’Abisso, l’Abisso guarda dentro di te’. Lo sfondo è nero, il colore del lutto. Un ragazzo, di cui si vede solo la parte
superiore del corpo, si appoggia su due stampelle. Quanti giovani sono tornati
senza gambe dall’Afghanistan, da quella guerra spacciata per ‘dovere internazionalista’ e diventata
poi ‘guerra sporca’, durata dieci
anni, dal 1979 al 1989.
Quanti
giovani sono tornati senza braccia e senza gambe, rifiutati anche dalle
famiglie, ricoverati e abbandonati in qualche istituto. Forse per loro sarebbe
stato meglio tornare nelle bare di zinco
come i tanti altri (il numero si aggira sui 26.000) che erano morti laggiù- e
che cosa c’era, poi, dentro quelle bare di zinco? Quei resti, quei frammenti di
corpi dilaniati dalle granate, erano proprio quelli del ragazzo identificato
con nome e cognome sulla bara? Oltre tutto, i soldati non avevano neppure le
piastrine di riconoscimento. Erano partiti- quasi tutti- baldanzosi, credendo
che sarebbero diventati degli eroi, con
l’incoscienza giovanile che fa della guerra un’avventura straordinaria, un rito
di passaggio per diventare un uomo.
E poi c’entrava il senso del dovere, quando la Patria chiama, si ubbidisce.
Quando un superiore dà un ordine, si ubbidisce, non si sta a discutere. Ti dicono
di uccidere e tu uccidi. L’esercito è così.
Erano tutti giovanissimi- lo si sente nelle voci che raccontano, che parlano di
scuola, di primi amori, della mamma. Quando, alla fine del libro, si leggono
gli epitaffi, la serie delle date di nascita e morte (il calcolo è presto
fatto, diciotto, diciannove, vent’anni) è sconvolgente. Questa è la maggiore
differenza con la Grande Guerra Patriottica che aveva coinvolto tutti, in cui
tutti avevano sofferto, tutti avevano avuto dei lutti. La guerra in Afghanistan
era avvolta da un alone di segretezza e di mistero. Circolavano voci che laggiù
i soldati se la spassassero e si arricchissero, che tornassero con mangianastri
e cappotti foderati di montone. Non trapelava altro, in guardia dal disfattismo!
Ho pensato anche a “La strada del Davai”
di Nuto Revelli, leggendo “Ragazzi di zinco”. Altro paese, altra guerra, un
altro tempo, eppure c’è la somiglianza della scoperta dell’orrore della guerra nelle voci degli italiani che
parlano con Revelli e in quelle dei russi che raccontano a Svetlana
Aleksjevich. C’è l’atroce realtà di quello che significa uccidere, quella
ancora più spaventosa del rendersi conto del sollievo che si prova, se è un
altro che muore, la sensazione di essere vittime
di un enorme inganno, di non poter mai più tornare ad essere quelli di
prima.
Ragazzi, giovani donne inviate per lo più
come infermiere (mai avrebbero pensato di dover prestare aiuto in situazioni
così disperate) e madri prendono la parola in questo libro corale. E sono le madri quelle che più straziano il
cuore, come quelle di Palza de Mayo, mamme che ricordano il figlio bambino che
chiamavano ‘il mio piccolo sole’, mamme che vanno ogni giorno sulla tomba del
figlio e ogni loro parola è una carezza, mamme che non si rassegnano.
E’ un libro epico e stranamente poetico, “Ragazzi di zinco”. E’ una poesia del dolore che nasce dal
contrasto tra giovinezza e vite stroncate, tra l’orrore della morte e il
fulgore dei colori di splendidi paesaggi. E’ la poesia della fine dell’innocenza. Di una generazione perduta. E’
una testimonianza impossibile da
ignorare.
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