mercoledì 28 ottobre 2015

Elizabeth Bowen, “La casa di Parigi” ed. 2015

                                  Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
                                                              FRESCO DI LETTURA


Elizabeth Bowen, “La casa di Parigi”
Ed. Sonzogno, trad. Alessandra di Luzio, pagg. 288, Euro 16,00

           

      Non sono certa che i due bambini, Henrietta e Leopold, siano i protagonisti del romanzo “La casa di Parigi” della scrittrice irlandese Elizabeth Bowen. Non sono neppure certa che lo sia Karen Michaelis, la madre di Leopold (figura che rivive per noi nel passato, clamorosamente assente nel presente). Tantomeno lo è la pallida e servizievole signorina Fisher, angustiata e tiranneggiata da una madre invalida di un male misterioso. O il fedifrago Max, il tenebroso anglo-francese ebreo, padre di Leopold che è morto dieci anni prima (Leopold ha nove anni), circonfuso di un alone di rimpianto amoroso ben poco meritato. Forse è proprio la casa di Parigi la protagonista di questo romanzo che ci fa pensare a Henry James per l’atmosfera sussurrante di figure fantasma (“Il giro di vite”), per i due personaggi di bambini stranamente saggi, come due piccoli adulti, che ci ricordano la Maisie di “Che cosa sapeva Maisie” e per la tecnica narrativa capace di alternare i punti di vista. Una casa singolare, alta e stretta, buia, con mobili scuri, un tempo una pensione per signorine a Parigi per motivi di studio, ora crocevia di passaggio per Henrietta e Leopold- lui al centro di un dramma, lei testimone non partecipe. Henrietta fa sosta nella casa tra un treno e l’altro mentre sta andando a raggiungere la nonna sulla Costa Azzurra. Leopold dovrebbe incontrare lì la madre che non ha mai visto- arriva dall’Italia dove vive la famiglia inglese che lo ha adottato. Dovrebbe, appunto.
L’atmosfera è carica di aspettativa, nella prima parte del romanzo, con l’incontro casuale dei due bambini. Aspettativa gioiosa di Henriette che spera di vedere almeno il Trocadéro in questa breve sosta. Aspettativa timorosa e ansiosa, traboccante di domande quella di Leopold, teso fino allo spasimo nel desiderio di conoscere finalmente la mamma, di sapere qualcosa, finalmente, su di sé. Bambini troppo adulti entrambi, una veramente orfana di mamma, l’altro come se lo fosse. Che parlano un linguaggio ben poco infantile, anche se poi Henrietta stringe a sé una scimmia di pezza. Anche noi lettori siamo colmi di aspettativa, quando inizia la seconda parte.
      Il tempo si riavvolge al passato, nella seconda parte. A dieci anni prima e a prima ancora. A quando Karen diciottenne era arrivata a Parigi per studiare arte ed era diventata amica della signorina Fisher. A quando aveva conosciuto Max, a quando- in seguito- si era fidanzata con Ray Forrestier, aveva saputo del fidanzamento di Max con la signorina Fisher, aveva rivisto entrambi. Si era data appuntamento con Max…
    La terza parte è un ritorno al presente, tutto è stato spiegato, compare sulla scena Ray Forrestier, i due bambini si separano, Henrietta parte per il Sud della Francia, Leopold per un futuro ancora incerto, ancora colmo di aspettative.

    “La casa di Parigi” è un libro intenso, un libro di silenzi, di spazi d’ombra (come quelli delle stanze della casa), di sentimenti che dobbiamo intuire, a tratti appesantito da un eccesso di descrizioni che combaciano con quello che stanno provando i personaggi (la pioggia sottile e triste durante l’incontro tra Max e Karen), e non sempre i dialoghi suonano spontanei. Eppure, è un romanzo che intriga, per gli stessi motivi per cui a volte ci respinge- per la sua aria di segretezza, il contrasto tra l’infanzia ignara e il mondo degli adulti che contiene tutte le risposte, il giudizio inespresso dei bambini nei confronti di questo mondo che- lo avvertono oscuramente- ha delle leggi tutte sue che possono danneggiarli.




      

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