Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda
INTERVISTA A DAVID NICHOLLS
David Nicholls è a Milano per presentare il
suo nuovo romanzo, “Noi”, nel corso degli eventi della Milano BookCity. Che
dire di lui? Che è come ci si aspetta che sia, avendo letto i suoi romanzi, che
non delude, come non deludono i suoi romanzi. Gentile, affabile, parla con
entusiasmo. Gli dico subito del mio timore che non mi piacesse il suo secondo
libro, del fatto che avrei provato un vero dolore se non avessi amato “Noi” quanto
“Un giorno”. E gli rivolgo quindi la prima domanda, su come abbia vissuto lui
questa seconda esperienza narrativa.
Penso che, come me, tutti gli appassionati lettori di “Un giorno”
attendessero con ansia il suo secondo romanzo. Confesso che io avrei provato un
vero e proprio dolore, se Lei mi avesse deluso. Aveva paura della prova del
secondo romanzo? Ha provato la paralisi dello scrittore?
Sì, assolutamente, avevo
paura della prova che è un secondo romanzo. Non volevo scrivere un seguito di
“Un giorno” ma neppure volevo scrivere qualcosa di diverso soltanto per amore
del diverso. Volevo lanciare una sfida a me stesso e cercare di migliorare,
volevo scrivere qualcosa di nuovo. Ho passato quattro anni a pensare e a
scrivere inizi sbagliati e ad abbandonare idee, poi infine ho scritto velocemente
e con grande piacere: mi sono divertito a scrivere. E sì, ho avvertito la
paralisi dello scrittore, anche se ho scritto altre cose, copioni, parole per
dei romanzi, scrivevo ogni giorno ma niente che mi piacesse.
In questo secondo romanzo Lei ha scambiato, capovolgendole, le
personalità dei personaggi principali: in “Un giorno” c’era un ragazzo
scapestrato e inaffidabile e una giovane donna posata e saggia; in “Noi” è il
contrario, è l’uomo ad essere saggio e razionale, mentre la donna è il tipo artistico
e stravagante. Questa scelta di caratterizzazione ha fatto parte di- diciamo-
una sorta di strategia per differenziare i due libri? Voleva esplorare come
funzionava, come si sarebbe evoluta la situazione?
Certo, volevo scrivere di
un uomo diverso. Dexter era incapace di concentrarsi, di fissarsi su di una
sola persona. Volevo scrivere di qualcuno del tutto fedele. Volevo qualcuno di
leale e pieno di amore per la moglie. Finora avevo scritto molto di attori e di
studenti di letteratura, volevo parlare di un campo diverso. Ha inciso il fatto
che abbia incontrato una biochimica che veniva a fare da babysitter ai miei
bambini, una ragazza che studiava per il Ph.D. Lei ci ha portato nel suo
laboratorio, ci ha fatto vedere il suo lavoro al microscopio: era un ambiente
talmente bello che ho saputo subito che ne volevo scrivere. Avevo sempre
pensato che un laboratorio fosse un luogo sterile e rigido, e invece c’era
entusiasmo combinato con un pensiero profondo. Era la collocazione perfetta per
un eroe.
In “Noi” c’è un solo narratore, e sembra essere abbastanza onesto con
se stesso: lo è veramente?
Penso che la grande sfida
e il divertimento della scrittura in prima persona siano quelli di lasciar
vedere al lettore cose che il narratore non vede- l’infelicità della moglie, il
risentimento, la sua incapacità di confrontarsi con la verità. Quando scrivi di
un personaggio che non è del tutto consapevole, devi lasciar filtrare
informazioni. Penso che ci sia molto che Douglas non accetta, i suoi errori, il
suo spadroneggiare con suo figlio.
Nonostante Douglas non sia più un ragazzino, potremmo dire che questo è
un ‘romanzo di formazione’?
Penso proprio di sì, perché
alla fine Douglas è un uomo migliore, il suo viaggio in Europa è stato un
viaggio ‘personale’.
Un’altra differenza importante tra i due romanzi è che questo secondo
libro è più complesso: esplora non solo il rapporto di coppia ma anche quello
tra padre e figlio e tra madre e figlio. In realtà Douglas è così onesto da non
sottolineare neppure il rischio- o la realtà- del complesso d’Edipo per suo
figlio.
E’ vero, anche Dexter aveva un rapporto
molto stretto, di adorazione, con sua madre.
Forse dipende dalla mia
esperienza, che i bambini guardano la mamma come una specie di difesa o una
barriera. Penso che Albert e sua madre siano legati non solo dall’affetto, ma
anche da una sorta di coalizione contro Douglas- a volte lo trattano proprio
male. Le alleanze nelle famiglie possono essere dolorose e si spostano di
continuo. La mia intenzione era di scrivere delle paure di un uomo, e di amore
non corrisposto nella famiglia. Douglas ha il terrore di non essere amato. Non
penso che sia un libro pessimista o infelice, anche se di certo ci sono dei
momenti di infelicità. Ed è vero che il mio interesse ha un campo più vasto in
questo romanzo, d’altra parte ho 47 anni e a questa età volevo parlare
direttamente della famiglia.
Mi è sembrato che le piacciano le storie che si allungano nel tempo.
Pensa che la durata temporale serva per dare la giusta prospettiva di una
storia?
Ha a che fare con il
dare una qualità epica alla storia, ecco perché il grand tour ed ecco perché volevo l’intera storia di un matrimonio.
Quando si scrive delle minuzie della vita famigliare è difficile impedire che
la storia acquisti un’aria di domesticità. Ammiro gli scrittori del ‘900
americani, come Cheever o Anne Tyler che sanno scrivere di piccole vite dando
loro un’aria di grandiosità, diversamente dalla commedia sociale britannica. I
romanzi americani, anche quando parlano della vita nei sobborghi, hanno un che
di vitale e di epico. Mi piaceva l’idea del dramma domestico su questo sfondo
epico in un periodo di tempo lungo.
Amore ed amicizia è un suo tema costante. Le sue coppie possono essere
amici- prima o dopo il matrimonio. Non è molto comune: lei crede che sia
possibile, anzi necessario?
Forse è un ideale, ma sì,
penso che sia possibile. L’amore di Romeo e Giulietta è meraviglioso ma è un
tipo raro nella vita. Nella vita vera penso ci sia una sovrapposizione di amore
e amicizia, ci sia un essere onesti l’uno con l’altro, viaggiare insieme, ma
anche amore, passione, elettricità. Mi interessa questo sovrapporsi di amore e
amicizia.
l'intervista è stata pubblicata su www.wuz.it
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