Voci da mondi diversi. Asia
fresco di lettura
Kakuta Mitsuyo, “La
cicala dell’ottavo giorno”
Ed. Neri Pozza, trad. G. Coci, pagg 288, Euro 18,00
Titolo originale: Yōkame no semi
Verso la fine dell’estate, scoprii che era sposato. Kishida ha
trent’anni e, per quel poco che so, una moglie di un anno più giovane e un
figlio di due anni. Quando venni a saperlo, ebbi una reazione molto strana, lo
ammetto: scoppiai a ridere e non riuscivo più a smettere. Incredibile ma vero,
stavo seguendo lo stesso identico percorso della persona sul cui conto avevo
letto tanto, la donna che mi aveva rapita e allevata. Le assomigliavo, anche se
nelle nostre vene scorreva sangue diverso. Era di me che ridevo, di me stessa e
di nessun altro.
Leggere la trama di un libro non significa
nulla. A volte iniziamo con entusiasmo un libro, perché la vicenda ci
interessa, o ci sembra originale, e restiamo delusi dallo stile piatto e dalla
mancanza di vita dei personaggi. A volte, invece, la trama ci appare banale, e
poi, quale sorpresa! E’ il modo di raccontare dello scrittore che ci trascina,
che rende unica la storia, incantandoci. Avviene così per “La cicala
dell’ottavo giorno” della scrittrice giapponese Kakuto Mitsuyo.
Una giovane donna, Kiwako, ruba una neonata,
riesce a tenerla con sé per tre anni e mezzo, finché viene scoperta. La bambina
ritorna dai genitori e Kiwako sconta anni di prigione. Abbiamo letto di
frequente articoli di giornale con fatti analoghi, ci siamo chiesti quale
incuranza da parte del padre e della madre abbia reso possibile il furto e
quale disturbo psicologico abbia indotto una donna a compiere un simile gesto
che ci appare esecrabile, senza alcuno sconto. Eppure…E qui entra in gioco la
bravura di Kakuta Mitsuyo che trasforma questa trama in un romanzo ricco di
suspense, profondo, di varie sfaccettature.
Tutta la prima parte del libro è raccontata
dalla stessa Kiwako, perciò noi sappiamo solo quello che lei ci fa sapere a
poco a poco, cioè i fatti e non gli antefatti. Non veniamo a conoscenza subito
del dettaglio importante che la bambina è figlia dell’uomo che lei ha amato e
che l’ha ingannata, non dicendole che era sposato, facendole poi credere che
avrebbe divorziato, inducendola ad abortire e rivelandolo dopo che aspettava un
figlio da sua moglie. Comunque Kiwako entra nella casa che ha tenuto d’occhio
da tempo, sente la bimba piangere, la prende in braccio, non riesce a metterla
di nuovo giù e scappa. E’ come un raptus. Le dà subito un nome, Kaoru, come il
suo bambino mai nato. Impara a mentire, cercando rifugio da un’amica, e poi
ancora in fuga, quando trova alloggio da una vecchia in una baracca che deve
essere demolita, e infine nella Casa degli Angeli, una comunità, o una setta di
sole donne che accoglie altre donne in base a criteri che Kiwako non capisce
(saranno chiari alla fine del libro), ad eccezione di uno: chi chiede di essere
accettato nella comunità deve acconsentire a consegnare tutti i suoi averi. Kiwako
non ha scelta, si batte solo per poter tenere accanto a sé la ‘sua’ Kaoru. Va
bene che i bambini degli Angeli abbiano tante mamme, ma lei vuole la ‘sua’
bambina vicino, nella stanza che le è stata assegnata. Eppure anche questo
luogo recluso non sarà per sempre, arrivano accuse- dopo tutto, gli Angeli non
sequestrano forse le persone, come ha fatto Kiwako?-, genitori reclamano le
figlie minorenni, si teme un’indagine della polizia, Kiwako fugge ancora.
Arriverà su un’isola, un’altra illusione, Kiwako ringrazia per ogni giorno che
le è dato di passare con Kaoru.
Nella seconda parte del romanzo, cambia la
voce narrante: è quella di Kaoru, ormai studentessa universitaria che ha
ripreso il nome di Erina. Come hanno marcato la sua vita, il rapimento e poi il
trauma della brutale separazione dalla donna che le hanno insegnato ad odiare
ma che di certo le ha mostrato più amore della sua vera madre? Erina ha
cancellato i ricordi, anche se ha letto tutti gli articoli che sono stati
pubblicati sulla sua vicenda e sul processo- la sua parte di storia è
inframmezzata da questi testi. E si trova, inconsapevolmente, a ripetere il
modello della finta madre, di ‘quella’ donna, uscendo con un uomo sposato che
approfitta di lei. E’ l’incontro con quella che- lei non lo ricorda- era stata
la sua amichetta nella Casa degli Angeli, che spinge Erina a fronteggiare il
suo passato.
Questo romanzo così ricco di sfumature
invita ad una serie di riflessioni, sul desiderio di maternità e su che cosa
significhi essere madre, sui legami di sangue e sulla dipendenza femminile
dall’uomo, su chi sfrutta la fragilità umana e,infine, sulla difficoltà di
giudizio. Perché, pur condannando il crimine di Kiwako, non possiamo non
pensare che forse la bambina rapita sarebbe stata più felice con lei.
C’è un altro aspetto ancora di
questo romanzo che è molto piacevole. Ci trasporta in un Giappone che di
moderno ha i treni superveloci, ma che è ancora ricco di atmosfera, di feste
colorate e tradizionali come quella delle bambine, il 3 di marzo, o quella in
cui si affidano alla corrente le torce illuminate- a proposito, è stata una
fotografia scattata nell’incanto di queste luci tremolanti che ha portato
all’arresto di Kiwako.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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