Voci da mondi diversi. Australia
love story
Peter Carey, “Furto. Una storia
d’amore.”
Ed. Feltrinelli, trad. Vincenzo
Mantovani, pagg. 292, Euro 16,00
Ero un uomo quasi decente la sera
in cui io e Marlene avevamo parlato a Bellingen. Ma alla disgustosa mostra di
Stewart Masters ero sbronzo, barca con le scotte al vento sballottata dalle
onde, e ogni cosa sulla quale posavo lo sguardo mi sembrava falsa, artefatta,
nauseante come dei lustrini sulla porta di un cesso, ma poi eccolo là: occhi
socchiusi, labbra tumide, e quelle due cavità color miele sopra le clavicole.
Sorrise e i suoi occhi diventarono due fessure mentre mi dava la mano e io
pensavo: quel Leibovitz del cazzo l’hai rubato tu.
“Furto. Una storia d’amore.”: un titolo e un sottotitolo, nel nuovo romanzo
dello scrittore australiano Peter Carey,
che si aprono a più di un’interpretazione. Da quella più ovvia, secondo
cui si tratta del furto di un quadro e della storia d’amore tra il pittore
Michael “Butcher” Boone e la bionda Marlene Leibovitz, già nuora del grande
pittore Leibovitz, ad altre che possono essere ugualmente valide e
arricchiscono la nostra comprensione del libro- furto di affetti, o di tecniche
pittoriche, o della fiducia altrui; amore fraterno, o amore per l’arte o per la
vocazione di una vita. O, paradossalmente, per il denaro.
Il racconto del furto e della storia
d’amore è affidato a due voci narranti, di Michael Boone e di suo fratello
Hugh. Michael soprannominato “Butcher”, ‘macellaio’, perché questo era il
lavoro del padre e quello che ci si aspettava da lui, e Hugh, il fratello
ritardato, il gigantesco Idiot savant
che ci richiama alla mente altri personaggi simili della letteratura, dal lento
Lennie di “Uomini e topi” di Steinbeck (anche Hugh, come Lennie, non sa
misurare la sua forza e la frattura del metacarpo del dito mignolo è come una
firma del suo intervento- purtroppo rilevante nella trama) al tragico e
incoerente Benji nel capolavoro di Faulkner “L’urlo e la furia”. Cinque anni
prima Michael era un pittore famoso, poi c’è stata la separazione dalla moglie
che si è tenuta tutti i suoi quadri nonché il loro figlio, Michael ha cercato
di portarle via i quadri ed è finito in
carcere. Aggiungiamo a tutto questo un debole per l’alcool, e ora Michael è
alloggiato in una fattoria a nord di Sydney, messagli a disposizione da un suo
collezionista. A lui e a Hugh, naturalmente, perché dovunque c’è Michael c’è
pure Hugh.
E poi, un giorno, attraverso la cortina di pioggia appare questa
donna, Marlene, con le scarpe in mano. Cerca la casa del loro vicino, un uomo
che ha un Leibovitz. Che cosa abbia in mente l’affascinante Marlene lo
scopriremo a poco a poco dal racconto di Michael che, tutto sommato, è ingenuo
quanto il fratello e ha sempre e solo una visione parziale di quello che sta
accadendo- lui dipinge come un forsennato, quadri giganteschi che lei riesce a
fargli esporre in una galleria in Giappone. Perché mai il Giappone? E non è
alquanto strano che ci sia un acquirente per tutti i suoi quadri, prima ancora che vengano esposti? Dal Giappone
a New York, con Marlene che si arrampica sulle scale antincendio, che sa usare
il piede di porco, che ha un’attrezzatura da fare invidia ad un ladro. E tutta
una storia di veri e falsi quadri del grande Leibovitz, di cui lei ha sposato
il figlio. Il quale è l’unico che ha il droit
moral di autenticare i quadri del padre. Si parla di milioni di dollari,
vale la pena di rischiare per queste cifre. Magari anche di uccidere.
Da Michael ascoltiamo questa storia complessa,
con un linguaggio esuberante capace di passare da un tono rudemente poetico ad
uno spontaneamente sboccato (non c’è quasi pagina senza parolaccia), da Hugh
apprendiamo una versione personalizzata della vicenda, perché il grosso Hugh ha
solo il fratello e se stesso come punti di riferimento. E naturalmente il
linguaggio di Hugh è basilarmente semplice, a volte con storpiature (e sarebbe
interessante poterlo confrontare con l’originale per capire meglio il grado di
handicap di quest’uomo che ha il cuore grande come le sue manone). E ci viene
in mente un ultimo raffronto, con uno dei due gemelli del romanzo “The solid
mandala” del premio Nobel australiano Patrick White e con l’opera stessa di
White. Perché ci pare che quello che caratterizza la letteratura australiana
sia una potenza grandiosamente selvaggia, un’originalità e una forza creativa
dell’immaginazione che non ha uguali nella narrativa degli altri paesi.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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