Voci da mondi diversi. Area germanica
love story
il libro ritrovato
Eduard von Keyserling, “Il castello di Dumala”
Ed. Marcos y Marcos, trad.
Giuseppe Farese, pagg. 190, Euro 10,00
Pichwit aiutò la baronessa a montare sulla slitta e si sedette al suo
fianco; allora anche il malaticcio viso fanciullesco sorrise e arrossì.
Werner restò lì ancora per un certo tempo e seguì con lo sguardo la
slitta e lo sventolio del velo azzurro sulla cuffietta di lontra, proteggendosi
gli occhi dal sole con la mano per poter vedere meglio e più a lungo.
Avevamo già riscoperto l’autore
dimenticato Eduard von Keyserling con la pubblicazione del romanzo “Onde”, lo
scorso anno. E’ la volta adesso de “Il castello di Dumala”, uscito per la prima
volta nel 1907 e poi- per quei casi strani inspiegabili- scomparso dagli scaffali.
Come “Onde”, anche “Il castello di Dumala” ha una compattezza di trama, una
rigorosità di linguaggio tinteggiato di poesia, un tratto finissimo nella
descrizione dei personaggi che ne fanno un piccolo gioiello della narrativa.
Un paesaggio nordico (von Keyserling
nacque nell’attuale Lettonia anche se poi visse per lo più a Monaco, in
Germania), dai grandi contrasti: il bianco della neve, la luce che trae
bagliori dal ghiaccio, e il buio dei fitti boschi e delle lunghe notti; due
donne e quattro uomini e tutti e quattro sono innamorati di una delle donne, la
bella Karola avvolta nella pelliccia, annunciata dai campanellini attaccati
alla sua slitta, un tinnire argentino che si oppone alla musica per pianoforte
suonata dalla dolce Lene, la moglie del pastore.
La baronessa Karola è sposata
con un uomo più anziano che ha perso l’uso delle gambe (anche von Keyserling
era ammalato di una malattia degenerativa), che capisce l’irrequietezza della
moglie e la perdona, che vede come il giovane segretario (“il mio paggio”, lo
chiama Karola) ne sia innamorato senza speranza, come il pastore Werner debba
far forza sulla sua coscienza per non cedere all’attrazione verso di lei, come
il prestante barone Rast l’abbia conquistata. Così ardito il barone Rast da sfidare
i pettegolezzi per incontrare Karola ogni notte, accorciando la strada passando
su un ponte dalle assi marcite. La scena si carica di significati: il nero
della notte, il cavallo nero che trascina veloce una slitta scura, i due
innamorati delusi che spiano- e uno dei due vorrebbe favorire un incidente,
passa all’azione, si tira indietro perché ha un sussulto di ravvedimento alla
fine-, il vecchio immobile chiuso tra quattro mura, la moglie del pastore che
aspetta a casa, in lacrime. Ci sarà una fuga (come in “Onde”), eppure i tre
uomini rimasti non si disamorano: “cosa sappiamo mai, cosa sappiamo di ciò che
accade negli altri? Come possiamo mai giudicare?”, dice il pastore Werner; “il
paggio” resta ad accudire il vecchio barone, perché “lei” glielo ha chiesto; il
vecchio barone le manda dire che può tornare quando vuole, lui non cambierà il
testamento.
Splendido il finale triste che sigilla la
solitudine di ognuno nel freddo cimitero dove è stato sepolto il barone: la
grandezza di von Keyserling è nel dire non dicendo- non sapremo mai che cosa
sia successo a Karola e non ci importa,
la vediamo riapparire, lei che è stata molto amata e che adesso sperimenta
l’odio dei parenti che hanno perso l’eredità e che dice, “la solitudine sembra
essere il mio destino”. E in questa frase c’è tutto il suo passato e tutto il
suo presente.
la recensione è stata pubblicata su www.wuz.it
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