Diaspora africana
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Maaza
Mengiste, Lo sguardo del leone
Ed. Neri Pozza, trad. M. Ortelio,
pagg. 366, Euro 17,00
12 settembre 1974, Etiopia. Il Re dei Re, Hailé Selassié, viene deposto
con un colpo di stato. Una giunta militare marxista, il Derg, prende il potere.
Qualunque dissenso è soffocato in un bagno di sangue. Le vicende di quegli anni
di dittatura sono viste attraverso gli occhi di Hailu, un medico scrupoloso che
si è laureato in Inghilterra, e dei suoi due figli, l’obbediente Yonas e il
ribelle Dawit.
INTERVISTA
A MAAAZA MENGISTE, autrice de Lo sguardo
del leone
E’ sempre stato un paese fiero, l’Etiopia. Cinque anni di occupazione
italiana, sotto il fascismo, non l’hanno piegato. Ha combattuto contro il
nemico usurpatore con la furia del leone rappresentato sulla sua bandiera di
allora, l’altero leone berbero simbolo del paese, trasformato in animale
domestico dal Negus Hailé Selassié, allevato in cattività pure nello zoo. E,
come spesso accade, è forse meglio il titolo originale per il romanzo di Maaza
Mengiste, Beneath the Lion’s Gaze, Sotto lo sguardo del leone, che dà
l’idea della Storia che scorre implacabile sotto lo sguardo indifferente degli
immobili leoni di bronzo davanti ai cancelli della residenza dell’imperatore,
sotto quello del leone di granito alla base dell’obelisco con i bassorilievi
che ricordano la strage compiuta dagli italiani nel 1937, dopo l’attentato al
generale Graziani. Ora poi, nel 1974 del colpo di stato militare, i leoni
vedono anche la violenza sugli studenti, i cadaveri straziati dalle torture e
gettati in strada, con la proibizione che vengano raccolti per la sepoltura.
Sono giorni terribili, di sangue e paura. I protagonisti del romanzo di
Maaza Mengiste appartengono ad una famiglia dell’élite culturale: il padre,
Hailu, si è laureato in medicina in Inghilterra e, al ritorno in Etiopia, lo
stesso imperatore gli ha consegnato in regalo un orologio dicendogli: “Non
sprecare neppure un minuto in stupide chimere. Fa che l’Etiopia sia fiera di
te”; il figlio maggiore, Yonas, è professore universitario; il secondo, Dawit è
ancora uno studente. Loro tre rappresentano le tendenze dell’intero paese: la
vecchia generazione, a cui appartiene Hailu, legata alla fedeltà al vecchio
sovrano senza volerne ammettere le mancanze; dei due giovani, Yonas è pavido e
non osa intervenire, mentre Dawit si impegna nella ribellione e
nell’opposizione al regime militare.
C’è poi un altro personaggio, di diversa
estrazione sociale- è Mickey, l’amico d’infanzia di Dawit. Orfano di padre,
Mickey era stato per così dire ‘adottato’ da Hailu, difeso da Dawit quando i
compagni di scuola lo schernivano per le scarpe scalcagnate e gli abiti logori.
La parabola di Mickey è esemplare: Mickey si è arruolato, da sempre e ovunque
l’esercito ha offerto una soluzione ai più poveri. Il comitato militare lo ha
inviato nella regione del Wello colpita dalla carestia dove la gente muore di
fame. A questo punto Mickey è ancora capace di soffrire con chi soffre, di
lasciarsi sconvolgere dalle pance gonfie dei bambini e dagli arti scheletrici
degli adulti. E tuttavia Mickey non ha il coraggio di rifiutare quando riceve
l’ordine di uccidere tutti coloro che sono stati arrestati perché facenti parte
del vecchio governo. Quando, dopo l’eccidio, si presenta a casa dell’amico
Dawit per confessarsi, per ricevere un sostegno, Dawit ha orrore di lui e lo
respinge: la loro amicizia è finita. Dawit non si piegherà mai a chiedere aiuto
a Mickey, neppure quando suo padre Hailu viene arrestato, e Mickey continuerà
la sua ascesa a fianco dei militari assassini.
C’è sempre il rischio di un eccesso di schematismo quando uno scrittore
attribuisce ai suoi personaggi determinati comportamenti, buoni o cattivi,
senza mescolare le tinte. E tuttavia Maaza Mengiste è abbastanza abile da
rimescolare le carte alla fine, cosicché la durezza della vita impone delle
svolte a tutti. Intanto il lettore è
venuto a conoscenza di una Storia che non si trova sui manuali, di una
dittatura spietata che verrà abbattuta solo nel 1991 dopo aver fatto 200.000
vittime. Nel libro della Mengiste quelle
che più toccano il cuore sono la ragazza che viene portata in ospedale perché
Hailu la faccia vivere ad ogni costo- è stata torturata da un rinomato
‘macellaio’- e il bambino Berhane, prima arrestato perché testimone di qualcosa
che lui non ha capito affatto e poi ucciso perché ha rallentato il passo per
tirarsi su i calzoncini che gli cadono sulle gambette magre. Si sa, è facile
suscitare la commozione con i deboli e gli innocenti che soffrono, eppure è
vero che sono proprio loro a pagare per degli eventi che sono più grandi di
loro, oppure, come è il caso di Hailu, imprigionato e torturato, scontano la
loro bontà e umanità. Perché, come dice la nuora di Hailu, quello che importa non
è vivere ad ogni costo, ma ‘come si vive’.
Abbiamo incontrato Maaza Mengiste per parlare con lei del suo libro che
contiene una storia che ci tocca da vicino.
Ho
osservato che il libro è dedicato ai suoi nonni e ai suoi zii, due dei quali
hanno i nomi di due personaggi del romanzo, Mekonnen e Solomon: c’è qualcosa
della storia della sua famiglia nel romanzo?
La storia della mia famiglia è solo in parte presente nel libro. Quello
che c’è è l’esperienza della paura e l’oppressione che la gente ha
sperimentato. Mio nonno fu arrestato per un breve periodo e poi rilasciato, per
fortuna. I miei zii non erano come i personaggi del libro che hanno i loro
nomi, ma volevo, per l’appunto, dare i loro nomi a dei personaggi perché era un
poco come farli rivivere. Erano più vecchi del Mekonnen e del Solomon del
romanzo, erano sulla trentina e sono morti entrambi durante le proteste contro
il Derg. Io non li ho potuti conoscere ma ho fatto tante domande su di loro:
sono stati due tra le tante vittime della rivoluzione.
Il
libro verte sulla ribellione degli studenti e dei giovani: sembra che dapprima
siano contro Hailé Selassié e poi contro il Derg, il governo militare. Furono
delusi dal cambio di governo? Si aspettavano qualcosa di diverso?
Sì, si aspettavano qualcosa di diverso. Pensavano che, una volta che non
ci fosse più Hailé Selassié, avrebbero avuto un governo di civili, che ci
sarebbero state elezioni democratiche, che i militari al governo si sarebbero
ritirati. Non avevano idea che il governo sarebbe diventato così violento e
oppressivo. Erano giovani e idealisti.
Si
accenna spesso alla madre di Sara che uccise un ufficiale italiano: può dirci
di più di questo fatto? È un fatto realmente accaduto?
La storia della madre di Sara non è la storia di qualcuno che conosco,
ma durante l’occupazione italiana era frequente che gli ufficiali
dell’esercito, o anche i civili, prendessero delle donne etiopi e le tenessero
come serve e amanti, contro la volontà delle donne, naturalmente. Gli italiani
venivano in Etiopia come civilizzatori e si comportavano come se l’Etiopia
appartenesse a loro, come se sia l’Etiopia sia le sue donne fossero loro
possesso. Nacquero molti bambini da quelle unioni e nel romanzo c’è un cenno
alla possibilità che Sara fosse uno di quei bambini di sangue misto. Il problema
dell’identità era complicato- penso che siano molti gli etiopi che hanno sangue
italiano. Comunque l’episodio della madre di Sara è vero. Io mi domandavo che
tipo di resistenza potesse fare una donna in quella situazione. Perché parte
del libro è un’esplorazione di quali forme la resistenza può prendere. La madre
di Sara aveva solo 14 anni quando le accadde di essere ‘presa’ da un italiano e
quando qualcuno ti opprime fisicamente la reazione è per forza una reazione
fisica. All’origine all’episodio della madre di Sara era dedicato un capitolo
intero, poi il mio editor ha voluto che lo tagliassi perché pensava che
occupasse troppo spazio nella vicenda.
Non
è facile per noi, lettori italiani, accettare la verità: che eravamo il nemico
in Etiopia, eravamo gli usurpatori del paese. E’ stato un periodo molto brutto
per la gente, quello in cui gli italiani hanno conquistato e occupato il vostro
paese?
E’ una storia complicata, un rapporto complicato.
Nessuno vuole che altri occupino la propria terra, prendano il tuo paese e le
tue donne. Però ci furono molti italiani che, anche finita l’occupazione, rimasero in Etiopia, ed erano
accettati del tutto, non c’era animosità nei loro confronti. Individualmente
erano gentili, ma è l’idea di colonizzare un altro paese che è violenta.
C’erano però quelli che vedevano gli etiopi come esseri umani e non
semplicemente come dei barbari. Gli etiopi non dimenticheranno mai Graziani e i gas
velenosi- sono cose che fanno parte della nostra storia. Quello che ci rende aperti
verso gli italiani è che noi non abbiamo mai rinunciato a lottare, noi ci
vediamo come vincitori e quindi possiamo anche essere generosi nei confronti
degli italiani.
Il
dottor Hailu e sua moglie vengono
rappresentati come persone molto religiose, hanno una stanza della preghiera in
casa: la religione cristiana è molto diffusa in Etiopia?
Sì, molto. E’ la religione copto-cristiana. Una cosa di cui non si parla
molto è che c’è anche una numerosa minoranza di musulmani. C’è sempre lotta tra
gli appartenenti alle due religioni, la classe governante è cristiana- nei
primi giorni della protesta c’era anche una richiesta di pari diritti. La
famiglia del dottor Hailu è molto simile a quella di mio nonno: anche in casa
dei nonni c’era una stanza della preghiera come la loro.
I
quattro personaggi maschili principali- Hailu, Yonas, Dawit e Mickey-
rappresentano gradi diversi di accettazione o di resistenza nei confronti del
governo militare. Mickey finisce con il diventare un uomo del governo anche se,
fondamentalmente, è un uomo buono. E’ la debolezza la sua colpa? è la
vigliaccheria che spesso spinge gli uomini a commettere il male?
Mickey è un uomo fondamentalmente
debole, arrabbiato per la posizione che occupa nella società. Vuole avanzare,
vuole avere una promozione e afferra l’opportunità. Volevo vedere che cosa
succede quando una persona non è cattiva, ma viene spinta in una certa
direzione e non ha la forza di resistere.
Mi
è sembrato però che ci fosse un punto di svolta nella vita di Mickey, un
momento in cui si decide il suo futuro e la sua scelta. E’ quando, dopo il
primo eccidio, va a casa dell’amico Dawit piangendo e Dawit lo respinge. Se
Dawit avesse avuto più comprensione per lui, forse Mickey non avrebbe
proseguito la sua carriera di assassino per il Derg.
E’ vero, perché Mickey non è malvagio,
ci si dimentica che Mickey si rifiuta di uccidere l’imperatore. Era rassegnato
ad essere ucciso lui stesso per disobbedire agli ordini, si era messo in
ginocchio a pregare: c’è una linea che non è disposto ad oltrepassare. E’
quello che è successo in Etiopia: la gente era divisa in due parti, non c’era
un’area grigia ed è stato quello che ha spaccato le famiglie e separato gli
amici.
Vive
ancora in Etiopia? Come è cambiato il paese dal tempo in cui è ambientato il
romanzo?
Vivo negli Stati Uniti, ora in Etiopia c’è un nuovo governo, non c’è
spargimento di sangue ma, non vivendo là, non posso parlare per esperienza
diretta. Le ultime elezioni sono state nel 2005 ed ora ci saranno nuovamente:
suggerirei a tutte le nazioni di osservare attentamente quello che succederà.
Gli Stati Uniti vedono nell’Etiopia un alleato cristiano, un’isola in mezzo a
paesi musulmani. Ma è necessario che si controlli che vengano rispettati i
diritti umani e la libertà di stampa. La mia famiglia vive ancora in Etiopia:
quando vado a trovarli, mi sento a casa.
Il
romanzo è scritto in inglese- una scelta ovvia, visto che ora Lei vive negli
Stati Uniti. Ma che lingua si parla in Etiopia?
Si parlano molte lingue in Etiopia, la principale è l’amarico, una
lingua semitica che ha un alfabeto simile a quello ebraico. La questione della
lingua è diventata una questione politica: ogni gruppo etnico vuole che venga
riconosciuta la sua lingua, domanda perché si debba scegliere l’amarico, senza
comprendere che la lingua unica è un collante. A scuola adesso si studia
l’inglese.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
bandiera etiope dal 1949 al 1975 |
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