Voci da mondi diversi. Area germanica
romanzo di formazione
FRESCO DI LETTURA
Benedict Wells, “La
fine della solitudine”
Ed. Salani, trad. Margherita Belardetti, pagg. 306, Euro
15,90
Marty, occhiali, eterno cappotto di pelle nera, lo studioso che sposerà
Elena quando saprà che lei non può avere figli (e non perché ne sia contento,
ma perché gli sembra giusto così).
Liz, bionda, bellissima, irrequieta, avida di vita, pronta a tutte le
esperienze, collezionatrice di uomini, a quarant’anni suonati si deciderà a
fare un figlio con l’uomo che l’ha sempre amata.
Jules, il guardiano della memoria, il narratore delle storie di
famiglia, aspirante fotografo (per far piacere al padre), aspirante scrittore,
innamorato di Alva da quando- erano poco più che bambini- l’aveva conosciuta in
collegio.
Sono i tre Moreau i protagonisti de “La fine della solitudine” del
giovanissimo scrittore tedesco Benedict Wells. O forse no. Il personaggio
principale è Jules, il più giovane dei tre che è solo un bambino di sette anni
all’inizio del libro e, per voce sua, la vera protagonista è Alva, efelidi,
capelli rossi, occhiali di corno, un incisivo leggermente storto. Jules
ricordava quando suo padre gli aveva detto che la cosa più importante nella
vita era trovare un vero amico. “Un vero amico è qualcuno che c’è sempre,
che ti resta accanto per tutta la vita. Devi trovarlo, è più importante di
tutto, anche dell’amore. Perché l’amore può finire.” E Alva, sola quanto
lui in quel collegio dove i Moreau erano stati mandati dopo l’incidente in cui
erano morti i genitori, era l’amica di Jules, la sua prima e unica amica, così
amica che né l’uno né l’altra si erano resi conto che il loro sentimento era
anche amore. Più consapevole Jules, forse, dopo che si erano persi di vista e a
lui era sembrato di vivere a metà finché si era deciso, le aveva scritto, si
erano ritrovati. E’ così facile, la vita? Conoscersi, perdersi, ritrovarsi,
vivere felici e contenti? No di certo.
La storia, le storie che Benedict Wells ci racconta per bocca di Jules,
non ha un andamento lineare. Inizia nel 2014, con Jules in un letto di
ospedale, dopo che è andato fuori strada con la sua moto (ha forse cercato di
uccidersi?), e poi procede a grandi salti e spezzoni. Jules e Alva ripetono più
di una volta che la vita è come un gioco a somma zero- alle disgrazie, alle
cause di infelicità, ci deve essere un corrispettivo che bilancia la negatività
e riporta l’equilibrio. Eppure, sia per Jules sia per Alva, sembra proprio che
le batoste siano state in numero maggiore, fino a quegli otto anni di felicità
insieme che vengono loro concessi. E poi? E’ zero il risultato? Nella scena
finale Jules esce dal bosco per raggiungere i figli che gli chiedono se sia
pronto a giocare con loro. “Sì, sono pronto”, sono le parole che chiudono il
libro. Allora possiamo pensare che la famiglia ha serrato i ranghi, che il
bosco in cui Jules si era inoltrato aveva anche un valore metaforico e che
adesso si dichiari pronto non solo a giocare con i gemelli ma a riprendere il
suo ruolo di genitore, ad essere un padre come suo padre non era riuscito ad
essere perché era morto giovane.
Le pagine de “La fine della solitudine”
traboccano di rimandi a musiche e a libri, ogni personaggio sembra avere un suo
doppio (o più di uno) che è anche, in qualche misura, il suo opposto- la pacata
Elena che soddisfa il suo istinto materno con i figli di Jules è in antitesi
all’eternamente insoddisfatta Liz, e pure ad Alva, affascinante ed elusiva che
ha sposato in prime nozze lo scrittore russo che più ammirava e che era più
vecchio di suo padre; Marty, il fratello maggiore che recupera tardi il compito
di ‘guida’ di Liz e di Jules e che è un completamento della personalità di
Jules; la zia dei Moreau che si sostituisce, per quanto possibile, alla loro
madre. Per un motivo o per l’altro, i genitori di questi giovani sono assenti
dalla scena. Ecco, allora, la solitudine, la ricerca dell’amico, le follie per
riempire il vuoto, gli errori, gli sforzi per risollevarsi.
Insolito romanzo di formazione che propone anche un’insolita revisione
della memoria che non sarebbe più necessaria, se- “E se il tempo non esistesse? Se tutto ciò che si vive fosse eterno e
non fosse il tempo a passarti accanto, ma tu a passare accanto a ciò che hai
vissuto?”, perché, in questo caso, i ricordi sarebbero sempre lì e, “se si potesse tornare indietro, li si
ritroverebbe nello stesso punto.”. E’ anche un romanzo intenso sulla
solitudine, sulla pienezza, sulla perdita, sulla caduta e sulla volontà di
andare avanti.
la recensione e l'intervista che seguirà saranno pubblicati su www.stradanove.net
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