Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
György Dragomán,
“Il re bianco”
Ed. Einaudi, trad. Bruno Ventavoli, pagg. 256, Euro 19,00
Ci sono due
romanzi ne “Il re bianco” dell’ungherese-romeno György Dragomán perché, anche
se la voce narrante è sempre la stessa- del ragazzino Dzsátá-, quello che
racconta nei due filoni è diverso, quasi che uno serva da contrappunto
all’altro, per alleggerirlo. Perché Dzsátá vive in Romania, sono gli anni ‘80 e
Ceauşescu è al potere. Il paese, gli anni e un nome sono sufficienti per far
balenare nella mente del lettore i possibili avvenimenti della vita di Dzsátá;
e tuttavia Dzsátá ha undici anni e i giochi, le scorribande con gli amici, i
suoi pensieri sono quelli della sua età, in ogni tempo e in ogni luogo. Anche
se non capita a tutti i giovani calciatori di venir avvisati di non toccare il
pallone perché c’è appena stata l’esplosione nucleare di Chernobyl e però la
partita si deve giocare (non importa come), perché non ci sia un’ondata di
allarmismo. Non tutti hanno un nonno che ti regala una Luger e ti fa allenare
sparando ai gatti. E non sempre i compagni di giochi sono violenti e aggressivi
come gli amici di Dzsátá.
immagine dal film tratto dal libro |
Il primo
capitolo è intitolato “Tulipani” e potremmo anche illuderci che quello che ci
aspetta sia una lettura romantica: l’undicenne Dzsátá ha puntato la sveglia
sulle cinque meno un quarto del mattino e l’ha messa sotto il cuscino, per non
svegliare la mamma. Vuole farle una sorpresa: uscirà di casa e taglierà per lei
i tulipani dell’aiuola del parco. Glieli metterà in un vaso sul tavolo. Ma,
appena sappiamo che è il giorno dell’anniversario del matrimonio dei suoi
genitori e che Dzsátá si sostituisce al padre nel tradizionale regalo dei
tulipani, abbandoniamo ogni illusione poetica quando apprendiamo anche il
motivo per cui è il bambino che raccoglie i fiori. Dzsátá sa solo quello che i
suoi genitori vogliono fargli sapere, quello che può sapere un bambino: dei
‘colleghi’ del papà sono venuti a prenderlo con un furgone grigio; c’è bisogno
di lui per una questione urgente in un paese vicino al mare; che peccato che il
papà non possa portarlo con sé, ma starà via una sola settimana. Invece sono
passati sei mesi, e la verità si infiltra a poco a poco nella consapevolezza
del bambino: non è nella sua qualità di scienziato che il papà è necessario, il
papà lavora alla costruzione del Canale Danubio-Mar Nero, il papà è un
lavoratore forzato, potrebbe anche non riconoscerlo quando ritornerà. Perché di
questo Dzsátá è certo- che il papà ritornerà.
E allora i capitoli che si
inseriscono a spezzare questa narrazione più dolorosa servono per far ritornare
ragazzino Dzsátá, per farlo fantasticare sul sesso, per lasciargli prendere
parte ad avventure che ci ricordano Huck Finn, per allontanarlo dalla realtà
degli uomini grigi della famigerata Securitate del regime di Ceauşescu. I ‘due’
romanzi proseguono parallelamente, ma quello della vicenda famigliare si fa
sempre più cupo, con la visita del bambino alla casa dei nonni (ma lui deve
rivolgersi al nonno chiamandolo ‘compagno segretario’ e non deve assolutamente
accettare nessun regalo da lui, perché il nonno non ha più voluto rivedere suo
padre da quando ha sposato ‘quella troia’ ebrea che è sua madre), la strana
gita fatta con il nonno in un furgone, la vendita al mercatino delle pulci di
tutto quello che mamma e bambino possono racimolare. E infine il funerale del
nonno che si è suicidato- spettacolo organizzato dal partito che si colora di
grottesco prima di precipitare in puro dramma con l’apparizione del tanto
atteso papà. Irriconoscibile, in catene, con lo sguardo spento.
Ci sono delle
realtà che solo lo sguardo di un bambino riesce a rendere più leggere e nello
stesso tempo più nudamente drammatiche: quelle della Romania di Ceauşescu è una
di queste.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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