Voci da mondi diversi. Europa dell'Est
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Magda Szabò, “La ballata di Iza”
Ed. Einaudi, trad. Bruno
Ventavoli, pagg. 304, Euro 18,00
Titolo
originale: Pilátus
In seguito, quando avrebbe
cercato di rievocare il viso di Iza la memoria gli avrebbe riportato spesso
quel giovane viso senza tempo, quello sguardo da giovane soldato, quell’Iza con
l’aria protettrice che accompagnava Vince con i guanti ciondolanti e le labbra
troppo pallide.
C’è una ballata
che Iza Szőcs non sopporta e che piace invece a suo padre e al suo ex marito,
perché la cantavano nel collegio dove entrambi avevano studiato in tempi
diversi. Parla di una vergine che giace su un catafalco, “il viso e il petto pallidi/ come neve sulle rocce”: a Iza non
piace perché non vuole commuoversi neppure per i versi di una canzone- e forse
non le piace perché, in qualche modo, vede se stessa nella figura della vergine
fredda e senza vita. Quando è diventata di pietra Iza, uno dei tre personaggi
principali de “La ballata di Iza” della scrittrice ungherese Magda Szabò? Forse
quando era solo una bambina e aveva dovuto farsi una corazza per avanzare a
testa alta negli anni in cui suo padre, il giudice Vince, era stato destituito
per non aver ossequiato il regime fascista. Come sopportare, altrimenti, la
miseria, l’emarginazione, il bruciore di vedere il suo nome- l’unico- nella
colonna dei non ammessi all’università? Poi qualcuno aveva interceduto per lei,
Iza si era laureata in medicina, nel frattempo suo padre era stato riabilitato,
Iza si era sposata con Antal.
Sono i quattro
elementi che assicurano l’equilibrio del cosmo- terra, fuoco, aria, acqua- che
danno il titolo alle quattro parti in cui è diviso il romanzo della Szabò. E
nella prima parte c’è il ritorno alla terra dell’ormai anziano Vince Szabò che
muore in ospedale, lasciando inspiegabilmente in eredità all’infermiera il
quadro di una fonte che era sempre stato appeso sopra il suo letto e che
nessuno aveva mai osservato. Della vita di Vince, di come fosse rimasto orfano
dopo il crollo della diga, avesse studiato grazie alla carità altrui e fosse
diventato un magistrato integerrimo (bella la sottile ironia del titolo
originale, “Pilátus”), sappiamo attraverso i ricordi della moglie Etelka,
chiamata per lo più “la vecchia” in tutto il romanzo. Vince ed Etelka, Iza e
Antal- questo è quello che è straordinario nello stile narrativo di Magda
Szabò: ogni personaggio è unico, ognuno giganteggia, ognuno potrebbe essere il
protagonista assoluto in un racconto in terza persona che però riesce
stranamente a creare a tratti l’effetto di un monologo interiore. Quello di
Etelka, che perde il compagno di una vita, l’uomo che ha rifiutato di
condannare degli scioperanti ed è vissuto senza stipendio per ventitre anni,
fino alla riabilitazione nel ‘46, e che si ritrova sola e accetta di andare ad
abitare con la figlia a Pest. Sarà come passare attraverso il ‘fuoco’- si
sciolgono tutte le illusioni che la vecchia si faceva, resta di ghiaccio il cuore
di Iza. Iza è una figlia perfetta, colma di attenzioni, Iza ha predisposto
tutto, Iza ha deciso tutto. Quello che la madre può tenere e deve buttare,
quello che può fare e deve evitare, dove può stare e dove non deve
immischiarsi. Etelka e Iza sono il vecchio e il nuovo, la tradizione e la
modernità, il passato e il presente che non si accordano. Forse è proprio perché
Etelka rappresenta quel passato che è meglio dimenticare che Iza è così dura
con lei- “povera infelice”, dice alla fine l’infermiera che diventerà la nuova
moglie di Antal, “crede che il passato dei vecchi sia ostile, non si è accorta
che è invece la misura per spiegare e capire il presente”. E, lentamente,
mentre in “Acqua” leggiamo del passato dell’ex marito Antal che ha tanto in
comune con quello del giudice Vince, iniziamo a capire meglio che cosa
allontani le persone da Iza, perché anche sua madre la lascia per tornare al
paese, alla vecchia casa, per seguire nell’ ‘aria’ la chiamata del marito.
Avevamo già ammirato nel romanzo “La porta”,
pubblicato lo scorso anno da Einaudi, la qualità tersa della scrittura di Magda
Szabò. E avevamo pensato che lo straordinario acume con cui era raffigurata
l’anziana Emerenc fosse in parte dovuto all’empatia di un’età condivisa (“La
porta” è del 1987 e la scrittrice è nata nel 1917). Dobbiamo ricrederci perché
“La ballata di Iza” è del 1963, eppure il dolore, le speranze, i tremori, il
senso di inutilità e di vuoto della vecchia Etelka sono rappresentati con la
stessa sensibilità con cui una relativamente giovane Szabò tratta gli altri
personaggi, riuscendo nel contempo a tracciare un quadro acquerellato della
situazione politica e sociale in Ungheria.
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