venerdì 11 agosto 2017

Panos Karnezis, "Il labirinto" ed. 2004

                                               Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
                                                la Storia nel romanzo
     il libro ritrovato

Panos Karnezis, “Il labirinto”
Ed. Guanda, trad. Federica Oddera, pagg. 331, Euro 15,00

   Difficile pensare al labirinto ed immaginarlo come una steppa desertica, senza punti di riferimento, con l’orizzonte che scolora all’infinito nel cielo. Eppure è questo il labirinto che dà il titolo al nuovo romanzo dello scrittore greco Panos Karnezis, “Il labirinto”, pubblicato da Guanda come già il precedente, “Tante piccole infamie”, dello scorso anno. Una sparuta brigata greca si ritira dall’Asia Minore dopo la sconfitta per mano dei turchi, nel 1922, e procede alla cieca nella calura, in un labirinto di sabbia, verso il mare e la salvezza. C’è forse un Minotauro in agguato che li attende? Piuttosto delle Furie che li inseguono, il ricordo vergognoso che nessuno riesce a cancellare di un massacro di civili. Era stato il generale Nestor ad ordinarlo, e non c’è dose di morfina che lo aiuti a dimenticare, non c’è più nessun conforto per lui nei miti greci che ama rileggere e neppure nelle lettere della moglie che è morta senza che lui potesse esserle vicino. Ma ognuno nasconde il suo segreto nella compagnia, il prete Simeon che ruba per poter continuare ad officiare una funzione religiosa a cui nessuno più attende, perché ormai tutti sono intrappolati in quello che lui chiama il labirinto dell’inferno, il maggiore Porfirio che diffonde volantini che incitano ad una rivolta contro una guerra che non è “altro che una partita di caccia voluta dalle classi dominanti”, l’ufficiale medico che conosce e nasconde i segreti di tutti.
“Solo ali di cera ci faranno uscire da questo inferno”, dice il generale, ma, invece di un Icaro che si innalza, c’è solo un pilota nella sua ultima missione di ricognizione, proprio in cerca delle truppe rimaste in Anatolia, che precipita con il suo aereo nel deserto. Arriveranno in una città, i soldati, sempre inseguiti dalle Furie che coloreranno di polvere rossa i muri e le strade, un presagio e un memento, rossa come il sangue dei due giustiziati- l’atto finale che chiude una marcia disperata segnata dalla follia che sembra essersi ormai impossessata di tutti, dal generale morfinomane al pilota operato al cervello, al prete che decide di restare e convertire i musulmani. E il mare a cui giungono infine appare come un miraggio, con le isole della Grecia in lontananza, e rovine di vecchi templi e sarcofagi che sprofondano nell’acqua- i resti di una civiltà agonizzante. Su un episodio di storia vera Panos Karnezis ha costruito un romanzo che ha la forza di un’epopea. Stilos ha intervistato lo scrittore, venuto a presentare il suo libro alla Fiera del Libro di Torino dove la Grecia è, quest’anno, l’ospite d’onore.

INTERVISTA A PANOS KARNEZIS



Lei è uno scrittore singolare: un greco che ha una laurea in ingegneria e vive in Inghilterra scrivendo in inglese della Grecia.
     Contrariamente a molti scrittori, io non scrivo da quando sono giovane. Ho sempre amato molto la lettura e ho letto molto, anche in inglese. Ho incominciato a scrivere per hobby, quando avevo trent’anni - adesso ne ho trentasei- e vivevo da quattro anni in Inghilterra dove ero venuto a studiare a Oxford per il Ph.D.. A poco a poco la scrittura è diventata sempre più importante per me, tanto da farmi lasciare il lavoro nell’industria per fare solo quello. Ho scoperto che il mio interesse per la cultura greca era aumentato, dopo che mi ero trasferito in Inghilterra, e forse è quello che accade naturalmente a chi emigra, perché si vive all’estero e si guarda con maggiore obiettività e distacco verso il paese da cui si proviene.

E ha iniziato la sua carriera di scrittore in modo opposto a quanto avviene di solito, con il genere più difficile dei racconti in “Tante piccole infamie”- anche se sono di un tipo particolare, collegati l’uno con l’altro.
     Ho pensato che scrivere dei racconti fosse la maniera migliore per imparare. Scrivendo racconti si può concentrare lo sforzo in una settimana, potevo insegnare a me stesso a scrivere un inizio e una fine. So che è il genere più difficile, ma un romanzo è anche più impegnativo, magari ci si mette un anno a scrivere un romanzo e poi ci accorge che non vale niente. Invece per un racconto al massimo butti via una, due settimane della tua vita, se non vale niente. Quanto a “Tante piccole infamie”, è stato solo dopo aver scritto sei o sette racconti che ho deciso di spostare l’ambientazione di tutti nello stesso posto e di far riapparire i personaggi. E’ stato molto più soddisfacente in questo modo, il libro è come un album di fotografie che, guardate una dopo l’altra, danno l’idea di un luogo.

Anche “Il labirinto” è un romanzo insolito: in parte, e in apparenza, è un libro di storia, e invece è qualcosa di interamente diverso. Perché le interessava questo episodio della storia greca?
    La guerra tra la Turchia e la Grecia si è combattuta alla fine della seconda guerra mondiale, tra il 1919 e il 1922, ed è stata molto importante, è la motivazione dell’animosità attuale fra i due stati. Mio nonno aveva preso parte a quella guerra e io sono cresciuto sentendolo raccontare della disfatta disastrosa. E tuttavia la trovavo interessante non solo come una storia di guerra, ma come un’allegoria della storia del secolo XX, di ogni guerra, di tutte le atrocità che soldati e civili devono affrontare nella guerra, quando si testimonia il fallimento di ogni credo religioso e politico, di amore e ideologie, e si cerca di aggrapparsi a qualunque cosa, come fa il generale Nestor con i miti.


E’ una storia di sconfitte, non solo dell’esercito, ma anche di tutti i personaggi.
     Esattamente. Come per il mio primo libro, non volevo scrivere la storia di un solo personaggio, volevo avere una visione più ampia, dei soldati nell’esercito e della gente di città. Volevo avere dei rappresentanti dei due gruppi, vedere come fronteggiavano la sconfitta. Il libro vuole essere anche ironico, nessuno dei personaggi è un eroe, tutti hanno i loro segreti: ne è un esempio il maggiore Porfirio che ha ricevuto una decorazione per un atto di eroismo che in realtà non era tale. E così la città che cerca di tenersi fuori dalla guerra, spera di non esserne toccata, e poi arriva l’esercito e vi porta l’orrore della guerra. Loro si interessavano solo della vita quotidiana, ma alla fine la pace della città è distrutta per sempre.

Forse si salvano solo il gobbo Yusuf e Annina.
    Forse sì, forse sono anche i più simpatici perché provengono da un ambiente del tutto diverso. A dire il vero non so quanto consapevolmente io li abbia fatti così oppure se si siano salvati da soli dall’orrore. Yusuf e Annina sono le persone che in un disastro perdono di meno perché hanno di meno da perdere, perché non hanno molto in partenza.


Ci sono anche due animali che hanno un ruolo importante, il cane che viene chiamato con due nomi, Caleb e Cerbero, e il cavallo.
    Tutti soffrono nella guerra e volevo inserire tra quei “tutti” anche gli animali, il cane, il cavallo, gli avvoltoi. Il cane è il compagno del prete, e anche il prete ha bisogno di ricevere e mostrare affetto. Gli sarebbe difficile avere un rapporto d’affetto con i soldati e per questo c’è il cane che lui chiama Caleb, che in ebraico vuol dire “colui che è perso nel deserto”, mentre il generale lo chiama Cerbero, il cane che è all’ingresso dell’inferno. Nessuno mostra affetto per il cavallo, ma quando poi se ne va, il caporale che è il suo proprietario ne sente la mancanza. In situazioni del genere, dove la gente è privata dell’umanità, si raggiunge un sentimento di cameratismo anche con gli animali.

I tre personaggi principali hanno ognuno un libro “sacro” a cui tengono più che a ogni altra cosa: il libro dei miti, la Bibbia, i testi di medicina.
     Verissimo, e bisogna aggiungere anche il maggiore Porfirio che ha i suoi testi sul socialismo: forse non li capisce bene, ma comprende che sono importanti. La mia intenzione era dire che la fede, non importa in che cosa, segue sempre le stesse regole: può essere fede negli dei, nei demoni, in un sistema politico, nella filosofia o nella scienza. E c’è dell’ironia nella figura del medico per cui Pasteur è come un dio, all’inizio lui crede che la scienza salverà il mondo e questo fa di lui un buon dottore. E anche in quella del prete che farebbe qualunque cosa per salvare la fede in Dio ed è pronto a sacrificare se stesso e la sua salvezza spirituale per far sopravvivere la religione.

Il romanzo è anche una nuova “Odissea”.

     L’Odissea è un libro di cui non si può fare a meno, se ne parlerà sempre perché vi si trovano tutte le situazioni che un uomo può sperimentare, prove e difficoltà, tribolazioni e disgrazie. A volte mi viene chiesto che cosa pensino i greci di oggi dei miti. I miti sono ancora importanti, i miti hanno una loro forza perché puoi ricondurre ogni situazione moderna ai miti di base. Devo dire però che non ero interamente consapevole di scrivere un’Odissea moderna.

L’epilogo del romanzo si distacca dalla storia raccontata.
    L’epilogo è simile al prologo: per capire il prologo bisogna leggere l’epilogo. Nello scriverlo volevo dare al libro un’accuratezza storica. Alla fine l’esercito abbandona l’Asia Minore, se ne va anche la minoranza greca per paura di rappresaglie. Restarono i musulmani e infatti si vendicarono, Smirne fu incendiata. La fine è simbolica: l’esercito va verso Ovest, i musulmani verso Est. E il libro si chiude con l’immagine dei musulmani che si coricano sotto le stelle e fanno addormentare i bambini raccontando loro dei miti: ecco, c’è questa credenza nei miti e la vita che inizia di nuovo, in maniera tradizionale.

recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos



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