Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
il libro ritrovato
Panos Karnezis, “Tante piccole infamie”
Ed. Guanda, trad. Mariagrazia Gini, pagg. 293, Euro 14,50
Un villaggio imprecisato, in
Grecia. Un tempo imprecisato, tra la seconda guerra mondiale e oggi. Ma non ha
importanza, perché il tempo si è fermato nel villaggio in cui la vita scorre
immutabile e le date sono contrassegnate dagli eventi, l’ultimo mese che ha
piovuto, l’anno del terremoto, oppure restano vaghe e nessuno sa quanto tempo è
passato da quando gli abitanti sono stati avvisati della costruzione della
diga. Un piccolo mondo circoscritto, dove non c’è la televisione e la linea
ferroviaria viene a un certo punto disattivata. Passa una corriera traballante,
per andare in città. Ci sono ventisette case, non raggiungono neppure il numero
minimo per avere un sindaco. Questa l’ambientazione per le 19 storie del romanzo
di Panos Karnezis, nato in Grecia nel 1967 e trasferitosi in Inghilterra nel
1992 per studiare ingegneria. Storie un po’ macabre, di un humour nero,
correlate tra di loro per raccontarci la storia di un paese. Pochi personaggi
hanno un nome: padre Yerasimo, il sacerdote che ha calcolato esattamente quando
sarà la fine del mondo se i suoi parrocchiani non si pentono; Stella la zitella
che accumula gioielli; Zaffiro la prostituta; il dottor Panteleon che non si è
mai laureato in medicina. Poi c’è il grosso barista Balena, il Macellaio, il
proprietario terriero, la levatrice, il capostazione. Una piccola infamia in
ogni storia, il furto dei soldi sulla corriera, il poveraccio che muore
nell’ufficio delle pensioni e nessuno se ne accorge, il ladro galante che
incanta Stella con l’organetto. Crimini più grossi, qualche volta, come il
padre che tiene le figlie legate a un collare, e tutti sanno in paese, ma non
parlano. O il proprietario terriero che avvelena la moglie. O il macellaio che
uccide il sindaco perché non gli dà più in sposa la figlia. Giustizia viene
fatta, a volte in maniera sottile, in modo che nessuno risulti colpevole. A
volte in maniera cruenta.
Ma l’arte di Karnezis è quella di raccontare dicendo
pochissimo, costruendo un’atmosfera, colorando la scena di dettagli, lasciando
il lettore libero di vedere l’insieme. Ci sono personaggi che ritornano in più
storie perché hanno un ruolo importante nel paese, e altri la cui sorte era
rimasta in sospeso in un racconto e trova la sua conclusione in un altro, come
avviene per il ladro galante che chiede un permesso per uscire di prigione con
un intento diverso da quello che pensavamo. E fa anche una fine diversa da
quella che pensavamo. Qualche tocco di realismo magico nella figura dell’uomo
centauro o nel pappagallo che impara Omero a memoria. Rarissime le incursioni
del mondo esterno nel villaggio: una volta arriva come un turbine una fotografa
che regala loro l’immortalità in uno scatto; una volta arrivano dei
“cacciatori” in inverno, e questo è l’unico racconto in prima persona, perché
questa è un’infamia che non ha radici tra risentimenti e ripicche, odi o
rancori del paese, e la scena brutale ricorda quelle tristemente note dei
rastrellamenti in tempo di guerra. Ma l’infamia peggiore deve ancora venire, e
anche questa viene dall’esterno. La minaccia incombente sul villaggio fin dal
terremoto iniziale si concretizza nella valanga d’acqua, causata dalla diga che
pensavano non sarebbe mai stata costruita perché loro non la volevano, che
spazza via le case e gli abitanti. La parola fine per il villaggio e per il
romanzo.
la recensione è stata pubblicata su www.stradanove.net
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