Voci da mondi diversi. Penisola balcanica
la Storia nel romanzo
il libro ritrovato
Panos Karnezis, “Il labirinto”
Ed. Guanda, trad. Federica
Oddera, pagg. 331, Euro 15,00
Difficile pensare al labirinto ed
immaginarlo come una steppa desertica, senza punti di riferimento, con
l’orizzonte che scolora all’infinito nel cielo. Eppure è questo il labirinto
che dà il titolo al nuovo romanzo dello scrittore greco Panos Karnezis, “Il
labirinto”, pubblicato da Guanda come già il precedente, “Tante piccole
infamie”, dello scorso anno. Una sparuta brigata greca si ritira dall’Asia
Minore dopo la sconfitta per mano dei turchi, nel 1922, e procede alla cieca
nella calura, in un labirinto di sabbia, verso il mare e la salvezza. C’è forse
un Minotauro in agguato che li attende? Piuttosto delle Furie che li inseguono,
il ricordo vergognoso che nessuno riesce a cancellare di un massacro di civili.
Era stato il generale Nestor ad ordinarlo, e non c’è dose di morfina che lo
aiuti a dimenticare, non c’è più nessun conforto per lui nei miti greci che ama
rileggere e neppure nelle lettere della moglie che è morta senza che lui
potesse esserle vicino. Ma ognuno nasconde il suo segreto nella compagnia, il
prete Simeon che ruba per poter continuare ad officiare una funzione religiosa
a cui nessuno più attende, perché ormai tutti sono intrappolati in quello che
lui chiama il labirinto dell’inferno, il maggiore Porfirio che diffonde
volantini che incitano ad una rivolta contro una guerra che non è “altro che
una partita di caccia voluta dalle classi dominanti”, l’ufficiale medico che
conosce e nasconde i segreti di tutti.
“Solo ali di cera ci faranno uscire da
questo inferno”, dice il generale, ma, invece di un Icaro che si innalza, c’è
solo un pilota nella sua ultima missione di ricognizione, proprio in cerca
delle truppe rimaste in Anatolia, che precipita con il suo aereo nel deserto.
Arriveranno in una città, i soldati, sempre inseguiti dalle Furie che coloreranno
di polvere rossa i muri e le strade, un presagio e un memento, rossa come il
sangue dei due giustiziati- l’atto finale che chiude una marcia disperata
segnata dalla follia che sembra essersi ormai impossessata di tutti, dal
generale morfinomane al pilota operato al cervello, al prete che decide di
restare e convertire i musulmani. E il mare a cui giungono infine appare come
un miraggio, con le isole della Grecia in lontananza, e rovine di vecchi templi
e sarcofagi che sprofondano nell’acqua- i resti di una civiltà agonizzante. Su
un episodio di storia vera Panos Karnezis ha costruito un romanzo che ha la
forza di un’epopea. Stilos ha intervistato lo scrittore, venuto a presentare il
suo libro alla Fiera del Libro di Torino dove
Lei è uno scrittore singolare: un greco che ha una laurea in ingegneria
e vive in Inghilterra scrivendo in inglese della Grecia.
Contrariamente a molti
scrittori, io non scrivo da quando sono giovane. Ho sempre amato molto la
lettura e ho letto molto, anche in inglese. Ho incominciato a scrivere per
hobby, quando avevo trent’anni - adesso ne ho trentasei- e vivevo da quattro
anni in Inghilterra dove ero venuto a studiare a Oxford per il Ph.D.. A poco a
poco la scrittura è diventata sempre più importante per me, tanto da farmi
lasciare il lavoro nell’industria per fare solo quello. Ho scoperto che il mio
interesse per la cultura greca era aumentato, dopo che mi ero trasferito in
Inghilterra, e forse è quello che accade naturalmente a chi emigra, perché si
vive all’estero e si guarda con maggiore obiettività e distacco verso il paese
da cui si proviene.
E ha iniziato la sua carriera di scrittore in modo opposto a quanto
avviene di solito, con il genere più difficile dei racconti in “Tante piccole
infamie”- anche se sono di un tipo particolare, collegati l’uno con l’altro.
Ho pensato che scrivere
dei racconti fosse la maniera migliore per imparare. Scrivendo racconti si può
concentrare lo sforzo in una settimana, potevo insegnare a me stesso a scrivere
un inizio e una fine. So che è il genere più difficile, ma un romanzo è anche
più impegnativo, magari ci si mette un anno a scrivere un romanzo e poi ci
accorge che non vale niente. Invece per un racconto al massimo butti via una,
due settimane della tua vita, se non vale niente. Quanto a “Tante piccole
infamie”, è stato solo dopo aver scritto sei o sette racconti che ho deciso di
spostare l’ambientazione di tutti nello stesso posto e di far riapparire i
personaggi. E’ stato molto più soddisfacente in questo modo, il libro è come un
album di fotografie che, guardate una dopo l’altra, danno l’idea di un luogo.
Anche “Il labirinto” è un romanzo insolito: in parte, e in apparenza, è
un libro di storia, e invece è qualcosa di interamente diverso. Perché le
interessava questo episodio della storia greca?
La guerra tra la Turchia e la Grecia si è combattuta alla
fine della seconda guerra mondiale, tra il 1919 e il 1922, ed è stata molto
importante, è la motivazione dell’animosità attuale fra i due stati. Mio nonno
aveva preso parte a quella guerra e io sono cresciuto sentendolo raccontare
della disfatta disastrosa. E tuttavia la trovavo interessante non solo come una
storia di guerra, ma come un’allegoria della storia del secolo XX, di ogni
guerra, di tutte le atrocità che soldati e civili devono affrontare nella
guerra, quando si testimonia il fallimento di ogni credo religioso e politico,
di amore e ideologie, e si cerca di aggrapparsi a qualunque cosa, come fa il
generale Nestor con i miti.
E’ una storia di sconfitte, non solo dell’esercito, ma anche di tutti i
personaggi.
Esattamente. Come per il
mio primo libro, non volevo scrivere la storia di un solo personaggio, volevo
avere una visione più ampia, dei soldati nell’esercito e della gente di città.
Volevo avere dei rappresentanti dei due gruppi, vedere come fronteggiavano la
sconfitta. Il libro vuole essere anche ironico, nessuno dei personaggi è un
eroe, tutti hanno i loro segreti: ne è un esempio il maggiore Porfirio che ha
ricevuto una decorazione per un atto di eroismo che in realtà non era tale. E
così la città che cerca di tenersi fuori dalla guerra, spera di non esserne
toccata, e poi arriva l’esercito e vi porta l’orrore della guerra. Loro si
interessavano solo della vita quotidiana, ma alla fine la pace della città è
distrutta per sempre.
Forse si salvano solo il gobbo Yusuf e Annina.
Forse sì, forse sono anche i più simpatici
perché provengono da un ambiente del tutto diverso. A dire il vero non so
quanto consapevolmente io li abbia fatti così oppure se si siano salvati da
soli dall’orrore. Yusuf e Annina sono le persone che in un disastro perdono di
meno perché hanno di meno da perdere, perché non hanno molto in partenza.
Ci sono anche due animali che hanno un ruolo importante, il cane che
viene chiamato con due nomi, Caleb e Cerbero, e il cavallo.
Tutti soffrono nella
guerra e volevo inserire tra quei “tutti” anche gli animali, il cane, il
cavallo, gli avvoltoi. Il cane è il compagno del prete, e anche il prete ha
bisogno di ricevere e mostrare affetto. Gli sarebbe difficile avere un rapporto
d’affetto con i soldati e per questo c’è il cane che lui chiama Caleb, che in
ebraico vuol dire “colui che è perso nel deserto”, mentre il generale lo chiama
Cerbero, il cane che è all’ingresso dell’inferno. Nessuno mostra affetto per il
cavallo, ma quando poi se ne va, il caporale che è il suo proprietario ne sente
la mancanza. In situazioni del genere, dove la gente è privata dell’umanità, si
raggiunge un sentimento di cameratismo anche con gli animali.
I tre personaggi principali hanno ognuno un libro “sacro” a cui tengono
più che a ogni altra cosa: il libro dei miti, la Bibbia , i testi di
medicina.
Verissimo, e bisogna aggiungere anche il
maggiore Porfirio che ha i suoi testi sul socialismo: forse non li capisce
bene, ma comprende che sono importanti. La mia intenzione era dire che la fede,
non importa in che cosa, segue sempre le stesse regole: può essere fede negli
dei, nei demoni, in un sistema politico, nella filosofia o nella scienza. E c’è
dell’ironia nella figura del medico per cui Pasteur è come un dio, all’inizio lui
crede che la scienza salverà il mondo e questo fa di lui un buon dottore. E
anche in quella del prete che farebbe qualunque cosa per salvare la fede in Dio
ed è pronto a sacrificare se stesso e la sua salvezza spirituale per far
sopravvivere la religione.
Il romanzo è anche una nuova “Odissea”.
L’Odissea è un libro di
cui non si può fare a meno, se ne parlerà sempre perché vi si trovano tutte le
situazioni che un uomo può sperimentare, prove e difficoltà, tribolazioni e
disgrazie. A volte mi viene chiesto che cosa pensino i greci di oggi dei miti.
I miti sono ancora importanti, i miti hanno una loro forza perché puoi
ricondurre ogni situazione moderna ai miti di base. Devo dire però che non ero
interamente consapevole di scrivere un’Odissea moderna.
L’epilogo del romanzo si distacca dalla storia raccontata.
L’epilogo è simile al prologo: per capire
il prologo bisogna leggere l’epilogo. Nello scriverlo volevo dare al libro
un’accuratezza storica. Alla fine l’esercito abbandona l’Asia Minore, se ne va
anche la minoranza greca per paura di rappresaglie. Restarono i musulmani e
infatti si vendicarono, Smirne fu incendiata. La fine è simbolica: l’esercito
va verso Ovest, i musulmani verso Est. E il libro si chiude con l’immagine dei
musulmani che si coricano sotto le stelle e fanno addormentare i bambini
raccontando loro dei miti: ecco, c’è questa credenza nei miti e la vita che
inizia di nuovo, in maniera tradizionale.
recensione e intervista sono state pubblicate sulla rivista Stilos
per contattarmi: picconem@yahoo.com
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